logo

3. Kandahar, nel cuore dell'impero di una guerra spietata 

 

Mentre il pilota ucraino accende i motori del Boeing 767, Shahab mi racconta come mai il personale Kam Air, la più grande compagnia aerea privata dell’Afghanistan, è ucraino: “Affitta gli aerei a compagnie ucraine per spendere meno soldi e avere la disponibilità per coprire le tratte”. Praticamente vola in tutte le provincie afghane. Anche le più remote. Luoghi distanti anni luce. Nel 2018, un attacco molto violento rivendicato dai Talebani fece decine di vittime nell’hotel Intercontinental, uno dei più conosciuti di Kabul e considerato la perla del regime comunista che governò fra gli anni ’70 e ’80. È il simbolo dell’imposizione culturale straniera. L’attentato fece molte vittime ucraine, molte dei quali erano personale di bordo o piloti di Kam Air. La compagnia è indispensabile per il trasporto privato e di merci attraverso il paese, specialmente oggigiorno, dato che il traffico su strada è diminuito data l’insicurezza creatasi dopo l’inizio dei dialoghi di pace a Doha fra governo afghano e talebani. Ironicamente, la violenza è aumentata esponenzialmente. Anche se, a onor di logica, dovrebbe diminuire. Ma in Afghanistan le cose funzionano al contrario.  Da Doha le voci che arrivano non sono molto positive. Sembra che il governo afghano e i talebani non si accordino sul sistema islamico da usare durante i colloqui. Un punto di partenza interessante e sconcertante allo stesso tempo, visto che è bastato un dettaglio di certo non dei più rilevanti, per mettere in crisi un processo che porrebbe fine a 40 anni di massacri. Chissà cosa succederà quando dovranno discutere su come cambiare la costituzione.  Sembra assurdo che tutto possa fermarsi a questo. “Non è l’Islam il problema” – dice però Shahab, tenendosi stretto al sedile mentre il velivolo si appresta a decollare- “Prendi una bottiglia d’acqua con l’etichetta scritta in caratteri arabi da un lato e quelli latini dall’altro. Una persona vede solo la scritta in caratteri arabi mentre la seconda vede solo quella latina. Invece di dire che è possibile leggerle il nome dell’acqua nelle due maniere, entrambi sostengono che solo la loro versione sia quella giusta”. Rende perfettamente l’idea.

 

L’aereo decolla verso Kandahar. Dall’alto si scorgono le montagne che sovrastano Kabul. Rocciose e maestose. L’inizio dell’Hindu Kush. Ma anche l’inquinamento irreparabile dovuto anche alla polvere e al manco di precipitazioni. Dopo le montagne, che si fanno via via più rarefatte, s’impone una grande distesa.

Kandahar è la “città”, come la definisce qualcuno. La capitale imperiale. “In Afghanistan, chi non è si dice che nessuno abbia il diritto di governare sul paese, se non gli abitanti di Kandahar”. È forse uno dei centri più importanti della storia afghana. Una delle molte Alessandrie, fondate da Alessandro Magno durante le sue conquiste che lo portarono fino in India (anche se alcuni lo mettono in dubbio). Kandahar è stata terra di conquista. Da qui sono passati tutti, persiani, arabi, mongoli. Gengis Khan e Tamerlano. È diventata uno dei bastioni dei mujahidin durante il jihad, la guerra santa, contro i sovietici, per poi diventare la capitale dei Talebani durante la loro ascesa all’inizio degli anni ’90. È il centro da cui sono nati e dove ancora oggi hanno un piede fisso. È anche una delle città più conservatrici, più pericolose e che più ha sofferto i 40 anni di guerra. “È una città pazza” come dice Shahab.

 

Sull’aereo ci sono vari feriti di guerra. Sono stati a Kabul per farsi curare ma ora tornano al fronte meridionale. Dove la guerra è viva più che mai. Un comandante ci dice, quasi con fare menefreghista, che una bomba era esplosa vicino al loro checkpoint. Uno zoppica, l’altro ha perso la vista. Non è un bel vedere ma dà l’idea di cosa sia la guerra.

A Kabul, il conflitto è lontana. Ci sono problemi, sì. Esplosioni, certo. Ma non è niente comparato a Kandahar o altre zone dell’Afghanistan, dove la gente muore a frotte. Ogni giorno ci sono almeno 100 vittime nel paese.

Quando usciamo dall’aeroporto non si parla più inglese. Shahab prende un taxi e mi comunica solo in Dari, il persiano parlato in Afghanistan. Riusciamo ad intenderci. Molti non conoscono la lingua persiana qui. Parlano solo il pashtu, la lingua locale e, insieme al Dari, lingua nazionale. Alla fine l’Afghanistan è pashtu. La retorica occidentale ha demonizzato i pashtu facendoli sembrare tutti terroristi, perché i talebani sono tutti di questo ceppo.

 

Shahab dice a tutti che sono del Nuristan. Un cugino. Il Nuristan è una provincia del nord. Una valle molto povera, dove le persone sono molto alte. Meglio non dare nell’occhio. E ci sono vari motivi. Il primo è sicuramente che sono forse l’unico straniero in città. La voce si espande in fretta, solamente mostrando un documento. I rischi sono molti. Oltre ai rapimenti, da quando gli accordi di pace sono cominciati sono aumentati anche i casi di “target killing”, omicidi mirati di alcune persone. Sembrano fatti a casaccio, per strada. Ma niente affatto. Il secondo motivo è proprio legato a questo: la mafia cittadina. Il fenomeno degli omicidi mirati, non è un problema di Kandahar, ma di tutto l’Afghanistan odierno. Ma qui, in particolare, il problema è più grande proprio per il conflitto di interessi fra vari gruppi. Un congiunto di criminalità che coinvolge tutti: polizia, potenti, talebani e servizi segreti e criminali, gruppi etnici pashtu. Ogni giorno, in città, ci sono 8 o 9 morti. Lo scopo è quello di destabilizzare la situazione. Una vera faida fra varie forze, specialmente dopo l’inizio dei negoziati di pace a Doha. Nessuno vuole la pace, a detta della gente. Le persone vengono freddate per strada. Con motorette, i sicari si avvicinano, sparano due colpi di rivoltella o di kalashnikov e poi scappano. Nessuno li prende. La polizia, a volte, è complice. È il caos.

 

Il taxi che ci porta in città dall’aeroporto, situato nella base Nato più grande del paese, entra in una corte con dei parcheggi. È circa l’una del pomeriggio. Il caldo imperversa ancora. Kandahar è in mezzo al deserto. Shahab mi dice di aspettare, mentre lui esce cercando un hotel. Non fiato con il tassista, che dallo specchietto mi scruta. Shahab torna dopo 5 minuti dicendo “khub ast”, va bene. Possiamo andare. L’hotel da fuori ha un aspetto fatiscente. Ci sono solo le mattonelle con incastrate dentro alcune finestre alla buona. Shahab, alla reception consegna solo la sua tazkara, il suo documento d’identità. Dice all’hotel che sono di Wardak come lui, la provincia dalla quale proviene. Parliamo in Dari. Nessuno capisce che sono straniero. In Afghanistan, spesso gli uomini danno solo il loro documento per evitare che si sveli l’identità della moglie. Sfruttiamo questo a nostro vantaggio. L’importante è che nessuno abbia il mio documento. Perché questo finirebbe sicuramente nelle mani della polizia. Corrotta ovviamente.

 

Non apro troppo la bocca, capirebbero. Perciò mi limito a rispondere annuendo oppure facendo domande brevi o dando risposte concise in Dari, come ad esempio “Koja mirim?” dove andiamo? “paisa dari?” hai soldi?, ecc.... Shahab è bravo e tiene il gioco perfettamente. Ci chiudiamo in camera per discutere, parlando sottovoce. L’hotel è semplice. I letti sono decenti e ci sono i servizi basici. Costa pure 20 dollari a notte. E non si chiude a chiave la porta, ma con un lucchetto. Ha tutti i servizi ma nessun tipo di sicurezza. Quando c’è bisogno di qualcosa se ne occupa Shahab. Torna in camera ridendo, dicendo che nell’hotel pensano che siamo poverissimi perché non usciamo mai.

Alle 4 organizziamo il primo meeting. Haji Wazir Mohammed, un signore che ha perso 16 familiari in un attacco americano nel 2012, ha deciso di darci un’intervista. È una delle innumerevoli vittime dei così  chiamati “night raids”, gli attacchi improvvisi notturni delle forze straniere, che hanno creato un odio infinito, incalcolabile, incommensurabile nei confronti degli occidentali. Per anni americani, italiani, tedeschi e tutte le forze Nato, appoggiando l’esercito afghano, hanno preso di mira case di civili entrando uccidendo picchiando. Un’umiliazione imperdonabile nella cultura afghana. A volte ci sono stati massacri premeditati e frutto della frustrazione di una guerra che non riuscivano a vincere. I Talebani, gli insorti, hanno dato filo da torcere agli americani che hanno cercato di salvare la faccia.

 

Se perdi tutta la tua famiglia, essendo innocente per di più, come farai a perdonare l’invasore? Haji Wazir si siede nella buia e vecchia sala stampa del Kandahar Press Club. Veste tradizionale. Viene dal distretto di Panjwayi. È forse uno dei distretti più martoriati dalla guerra. “È sempre stato in guerra quel distretto” commenta Kabir – “già i sovietici persero molti soldati in quel luogo”. Gli americani e l’esercito afghano, in seguito, hanno fatto la stessa fine. Panjawayi è conosciuto forse come il distretto più combattivo di tutto l’Afghanistan. Un delirio. Una vera “fossa degli imperi”. Haji mi racconta velocemente qualche pezzo della sua tragica storia, mentre rulla una cartina con dentro del Naswar, un’erba che la gente usa come tabacco. Ne fa una pallina, mettendola sotto il labbro. La sua faccia porta i segni della povertà estrema. La faccia è stanca, provata. I denti gialli.

Il press club è sicuro. Possiamo parlare inglese. Ma a Kandahar non si è mai 100% sicuri che qualcuno non faccia la spia. Dopo qualche minuto ci raggiunge Rahimi, il nostro amico e guida locale. Lavora come corrispondente cittadino per Ariana TV, una delle più grandi catene televisive del paese. Guarda una foto di un giornalista appesa al muro bianco della sala stampa disadorna. “Lui è morto perché ha fatto troppe domande. Lo hanno aspettato fuori, proprio da questa porta e con una mitragliata lo hanno mandato in paradiso”. Shahab mi traduce. Dico fra me e me… ormai sono qui. Haji Wazir Mohammed mi invita a vedere casa sua a  Zangabad, il suo villaggio in mezzo a Panjwayi, dove gli Usa gli hanno portato via per sempre tutta la sua famiglia, tranne un figlio. Là, l’Afghanistan è quello vero. Dove i talebani e il governo si contendono pezzetti di terra ogni giorno. Dove la povertà è tangibile. Dove la verità non si nasconde. Non vuole e non può.

 

Voglio chiaramente andarci. Shahab mi dice che abbiamo bisogno delle scorte della polizia. Da soli possiamo ma, la morte è cosa altamente probabile. Possiamo chiedere il permesso ai comandanti della polizia di Kandahar. Sperando che accettino. La polizia è corrotta, ma con l’appoggio del ministero degli interni di Kabul, possiamo smuovere le acque. I contatti sono sempre un vantaggio.

Haji Wazir mi avverte: “Io ti accolgo. Ma non posso assicurarti  sulla reazione del villaggio. Non so se ti uccideranno o no. Non hanno mai visto uno straniero dal 2012”. Anche Shahab mi ricorda sempre che in Afghanistan, non ti puoi fidare di nessuno. Gli rispondo fermamente: “Nel tuo rispetto, Haji Sahib (forma cortese di rivolgersi agli adulti), io voglio vedere con i miei occhi quello di cui scrivo. Sono pronto a morire per raccontare”. Apprezza molto il coraggio. Forse. Lo spero. Ma dice chiaro e tondo che non si prende la minima responsabilità. Insomma se succede qualcosa a qualcuno, è colpa mia. Sono io che voglio andare. Ma metto in pericolo varie persone. Il problema di fondo è che io sono straniero, e Shahab dice che senza polizia rischiamo il linciaggio. Haji Wazir ricorda di contattarlo in mattinata, se andremo. Nel frattempo si alza, si congeda e se ne torna a casa sua. La notte è calata. È il momento più pericoloso, perché è quando tutto può succedere.

 

Io e Shahab continuiamo a discutere con Rahimi. Voglio fare una storia anche sui target killing. “Sei fuori?” risponde Rahimi. “Lavoraci l’ultimo giorno che sei a Kandahar e poi vattene via. Qui ti fanno fuori”. I target killing sono precisi, silenziosi. All’aria aperta. Secondo Rahimi ci sono famiglie potenti e altri interessi dietro. Nessuno ne parla in città. E non posso scriverne troppo nemmeno io. È come firmare un contratto diretto con la morte. “I kandahari, gli abitanti di qui, sono fuori. Non conoscono compromessi” commenta Shahab. Se lo facciamo, veloce e via all’aeroporto. Torniamo in hotel con la macchina di Rahimi. Dopo essere stati due ore nel press club, diventa pericoloso anche stare seduti lì.

La sera, io e Shahab ci sediamo di fianco al letto per mangiare. È tradizione. Si mangia per terra. Mi uccide le ginocchia. Mi ricorda sempre che lo Yoga è importante. Ordiamo Naan, il pane, con pilau e altre classiche pietanze. Non mi sento molto bene e il calore della città mi toglie l’appetito. Ma mi sforzo a mangiare qualche cosa per mantenere le energie a livelli decenti. Discutiamo sul da farsi. Opzioni e probabilità. Rahimi chiama da casa sua. Si andrà a Panjawai. “Ha detto che verrà con noi, con la sua macchina e si prenderà il rischio. Ma se succederà qualcosa a noi, sarà colpa tua” commenta Shahab. “E ridaje. Ho capito” accenno sorridendo. Ridiamo entrambi. Ormai, fra pazzi non si può far altro. Tre giornalisti, innamorati delle storie, non possono tirarsi indietro. “Facciamo anche l’altra storia, dai” lo sorprendo. Shahab mi guarda sbigottito. “Questo non si ferma mai” – avrà pensato. Ma Shahab è matto come me. Ama il suo lavoro quanto lo amo io. Ed è pronto a morire quanto lo sono io. Ecco perché lavoro con lui, perché mi fido. Perché insieme sorridiamo. E con le sue preghiere rivolte a Dio, finora, non ci è successo niente. Anche se io non credo siano le preghiere a salvarci. Considero ogni tipo di religione qualcosa che crea il pretesto per devastare il mondo. E si vede ogni giorno, dal Vaticano fino ai terroristi di Allah.

 

La mattina seguente, sveglia alle 6.30. Rimetto velocemente le mie poche cose che mi sono portato nello zainetto. Metto i vestiti nella parte sotto dello zaino. Sopra macchina foto e i microfoni per lavorare, in maniera da essere veloce per estrarli. Mi lavo i denti. Non mi lavo ormai da due giorni. Ma non è questo il momento di farlo e non è nemmeno una tragedia. Piuttosto mi concentro. Penso a fare un buon lavoro. Alle 6.55 sono seduto sul letto. La partenza è prevista per le 7. Ma Sahab mi scrive su whatsapp. Rahimi stava dormendo. Maledizione. Arriverà in ritardo. Perdiamo tempo prezioso. Ne approfitto allora per inviare un articolo a Parigi con l’hotspot del cellulare. Così, se per caso mi rubassero o sequestrassero il pc, il mio articolo potrebbe comunque essere pubblicato.

Shahab scende le scale. Va a pagare l’hotel, così che io possa uscire diretto senza dare nell’occhio. Quando mi scrive “vieni” scendo. Motar dar sarak ast, la macchina è in strada, mi dice in Dari. Vado da Rahimi e salgo. Mi da un caffettano, tipico di Kandahar. Così, insieme ai vestiti tradizionali, peran tomban e wasqat (pantaloni larghi, veste lunga e un gilet, comodo per mettere quadernetto, penna, spiccioli e microfonino), mi do qualche secondo di vantaggio prima che mi scoprano nei villaggi.

 

Partiamo. In macchina Sahab prega. Lo fa sempre prima di una missione pericolosa. Mi tranquillizza essere con lui. Lo ammetto. È una figura che rispetto molto. Rahimi invece è serio. Anche lui mi guarda attraverso lo specchietto retrovisore studiandomi. Ma in verità è molto gentile e rispettoso. Continua a fare battute che chiaramente non capisco perché in Pashtu. Penso che avere a che fare con uno straniero che, dopotutto, vuole vedere la realtà, fa dimenticare alla gente, almeno per un momento, tutto il male che l’occidente ha portato in Afghanistan.

La strada è spettacolare. Montagne rocciose, marroni e color sabbia, spuntano dalle pianure mezze verdeggianti e mezze desertiche. Le donne camminano con il loro chadori, il burqa di differenti colori. Le motorette sono stracolme, a volte trasportano anche 4 persone più un bambino sul manubrio. Ci sono asini carrette camion. Non sembra esserci guerra. “Ieri sera c’erano combattimenti a Panjwayi” dice Rahimi. Insomma, la sera… ora è mattina. Ritirata? Speriamo. Meno male che con gli accordi di pace tutto doveva andare per il meglio. Non credere ai politici rimane sempre la soluzione migliore. Ormai è un mantra. Se dovessimo fidarci di tutte le cazzate che dicono… Afghanistan docet si potrebbe dire. O forse i politici corrotti afghani hanno imparato dai nostri?

 

Vicino a Panjaway chiamiamo il Qumandan. Il comandante. Anche lui dorme ancora. O si è svegliato per pregare troppo presto, o ha combattuto (ma ne dubito), oppure non gliene può fregare di meno. Sono le 9 del mattino maledizione. Un suo soldato dice che non ci vuole dare una scorta. Saremo soli. Ci da però il contatto di un uomo, Juma Khan, comandante del distretto della polizia locale afghana (ALP). La polizia locale afghana è una forza creata dagli americani nel 2014 per sopperire al manco di soldati e proteggere i villaggi in tutte le provincie. Affianca l’esercito e la polizia al fronte. Inutile dire che è una milizia male armata e poco motivata. Ci sono esempi eroici. Ma sono pochi. Bisogna sempre diffidare al massimo. Ma Juma Khan sembra essere un uomo gentile e per bene. Sorride. Sale in macchina giocando con il suo rosario. “Vedi com’è bello qui? “ mi chiede. “Siamo pacifici non è vero? Perché non ci lasciate in pace allora?”. Le sue parole scatenano una risata generale in macchina. Forse io sono un po’ imbarazzato. È vestito tradizionalmente, non da soldato. Ha i capelli neri, la pelle molto scura e due occhi marroni. Porta un baffetto. È il tipico pashtu. “Ora possiamo solo fidarci di lui” dice Sahab. E… fidiamoci, ormai indietro non si torna. Juma Khan chiama i suoi soldati e dice di prepararsi a pattugliare l’aera. Per noi ovviamente. Siamo nei meandri dell’Afghanistan duro. Remoto. La gente coltiva hashish, melograno e uva. Piantagioni di grano affiancano forni per seccare i keshmeesh, le uvette passe tipiche dei cibi persiani. Il territorio è magnifico. Le case, con mura di fango alte si susseguono. Sono tipiche. Celano misteri. Forse perché non riesci a capire come siano all’interno. Chi ci viva e cosa stiano facendo. Fra le case scorrono ruscelli. La stagione è ancora secca, e quindi non c’è acqua. I bambini escono per giocare, correndo e divertendosi. Ma come, non c’era la guerra, qui, poche ore fa? Alla fine penso che la gente ci abbia fatto il callo.

 

Arriviamo alla base del comandante. Juma Khan ordina ai soldati di prendere un motorino e andare a piazzarsi intorno al villaggio. Siamo arrivati a Zangabad. Dove volevamo arrivare. La base del Comandante apparteneva prima agli americani. È una specie di caravanserraglio di fango. È da lì che gli americani hanno sferrato l’attacco micidiale che ha ucciso la famiglia di Haji Wazir. A poche centinaia di metri, scorgiamo la casa di Haji Wazir. Quando ci vede non ci crede. In faccia ha stampato un gran bel sorriso. Forse non si aspettava che arrivassi. Ci abbracciamo. I salamelecchi, in Afghanistan, durano ben un 20 secondi per ogni persona. È una società che crede molto nelle tradizioni.

È fuori dal suo cancello, dipinto di giallo e azzurro. I colori chiari, forti si contrastano in maniera incredibile con il color sabbia delle mura. Sale sulla sua motoretta. Ci accompagna nella casa dove tutto, quell’11 marzo 2012, ha fatto precipitare la sua vita all’inferno. Quando ha perso moglie, madre, fratello, 4 figlie e due figli in un colpo solo. Per mano dei soldati americani che sono usciti per vendicarsi dei civili – per frustrazione, forse, o solo per commettere un crimine. Una storia di cui si è parlato ma che è stata dimenticata. O forse insabbiata dagli yankee. Haji Wazir comincia a parlare all’entrata: “Mia madre ha aperto la porta di notte dopo che qualcuno aveva bussato insistentemente. È stata uccisa proprio qui” indica con il dito, prima di entrare nella corte. Le case sono come piccoli caravanserragli. Dentro mura sono pieni di stanze e diverse casette. È un piccolo castello. Affascinante. Mi porta in una stanza. Racconta che tutti i cadaveri sono stati messi uno sopra l’altro e poi bruciati. Per distruggere le prove. “Guarda, si vede ancora il sangue e il segno dei proiettili” dice amareggiato. Mi mostra la stanza dove dormiva suo fratello con sua moglie mentre sono stati uccisi: “Non posso perdonare. Quando sarò in vita non potrò dimenticare. Quando morirò, Allah mi mostrerà una nuova vita” commenta. Non so bene cosa dire. Mi sento colpevole perché parte di questa atrocità alla fine. Ho il magone. O forse no. Io che c’entro? Ma in Afghanistan sono uno straniero e sono il “rappresentante”. Me lo diceva il grande comandante mujahid Gulbuddin Hekmatyar mentre lo intervistavo a gennaio. “Sei parte di tutto questo. Punto”. Questo non lo condivido. Ma è anche vero che gli occidentali ne hanno combinate troppe negli anni. Troppi morti. Troppi abusi. Tante cose sono successe da far perdere la testa a chiunque. Non si fa più differenza.

 

Perché tutto questo? Che bisogno c’era? Con che diritto, gli americani, si sono permessi di invadere, uccidere senza nemmeno differenziare, almeno, fra civili e talebani e obiettivi militari? Chi mi risponde che questa è la guerra, beh la guerra non sa nemmeno cosa sia. È meglio così da un lato. Perché la guerra è brutta, tremenda, triste. Fa male. Non smette di lacerare cuori oltre che corpi di innocenti. Ma non smette neppure di suscitare in me il bisogno di risposte.

Haji, insieme a tutto il gruppo di soldati, il comandante Juma Khan, Shahab e Rahimi, mi osservano. Aspettano che io abbia fatto le foto e i video necessari prima di proseguire.

 

Gli Stati Uniti, per discolparsi, hanno detto che questo massacro era frutto della pazzia di uno solo dei loro soldati, scappato dalla base di notte. Si chiamava Robert Bales. Ma com’è possibile che da solo sia potuto uscire dalla base di notte per uccidere? Io non me la bevo. Questo è un crimine contro l’umanità rimasto impunito. È uno scandalo. Infatti, Haji Wazir mi chiede se io sappia qualcosa di come sia finito il processo a Belz. Né gli americani né il governo afghano hanno mai avuto la correttezza di dare una risposta concreta. Bales è stato condannato all’ergastolo. Ma è tutto.

Uscendo dal luogo del delitto, un signore sporco, vestito di nero e pieno di sabbia ovunque e i tratti della povertà incisi sul viso, sorride in segno di rispetto. L’asino che traina il suo carretto non vuole muoversi. “Questi sono i nostri apache e i nostri aerei da combattimento” tuona Haji Wazir. Sale sulla motoretta e parte.

 

Haji mi invita a casa sua. Mi rispetta. Per quanto possa rispettare qualcuno che sospetta essere un complice del crimine. Entriamo nella sua casa. Suo figlio Iqmat, 13 anni, è l’unico ad essere sopravvissuto nella sua famiglia. “Ti odio” mi dice non appena metto piede nel Dalaan, il salotto tradizionale. Se ne va dopo aver baciato la mano a tutti gli afghani. Mi sento fuori luogo. Ma lo capisco benissimo. Aveva 5 anni quando ha perso madre fratelli e nonna. Non ha mai più visto uno straniero da allora. Come capisco, chi, come lui, ha raggiunto la guerriglia. Non posso che compatirli. Forse lo farei anche io. Iqmat è analfabeta. Non può andare a scuola. Così aiuta suo papà nel campo dietro casa. Hanno un giardino pieno di melograni. Stupendo. Haji Wazir si è risposato nel frattempo. Dal suo nuovo matrimonio è nato un bambino che appena gattona. Mi guarda con due occhi giganti. Pieni di curiosità. Sono penetranti. Forse, quando capirà qualche cosa, non dovrà pensare alla guerra. Ma poche sono le probabilità.

Haji è toccato, quando Iqmat, dopo che gli porgo la mano, la sfiora con la sua per poi ritirarla subito. Ma il suo sguardo è sempre pieno di risentimento. Mi sento un po’ rincuorato. Spero che possa dimenticare l’odio. Ma dovrebbe imparare, leggere, studiare. Andare via da lì. Forse potrò aiutarlo.

 

Prima che partiamo, Haji vuole mostrarmi il cimitero. Proprio a pochi metri dal fronte. Pericoloso. Non si sa mai chi chiami chi o che ci sia una bomba. Ci fermiamo pochi minuti. Piange molto. Le tombe sono diventate delle reliquie: “La gente viene qui per pregare e sperare in un qualche miracolo” dice sottovoce. La storia è talmente scioccante da toccare nel fondo anche un afghano, ormai indifferente alla guerra e alla morte.

Ci salutiamo. Non è un addio. Non lo lascerò indietro come hanno fatto molti giornalisti. Troverò il modo di rendergli, almeno, un po’ di giustizia. Scrivendo la sua storia, raccontandola. Aiutando suo figlio a vivere un futuro migliore. Non è giusto. Perché io vivo bene grazie alla sua miseria. Me ne vado da Zangabad con lo stomaco sottosopra.

Il Comandante vuole ancora parlare nella sua base. Andiamo di fretta. Mi porta sulla cima di un posto d’osservazione, spiegandomi da dove arrivano i talebani quando attaccano. C’è un promontorio a distanza di circa un chilometro. “È da dietro là che arrivano”. Mentre spiega, grida in pashtu ai soldati di fermare una camionetta che porta dell’uva. Squisita. Gliene requisiscono un po’. Shahab che capisce l’ordine ride. Me lo dice quando smette di parlare. Ridiamo molto. Sono proprio milizie. Difatti, ci stiamo trattenendo troppo tempo. Più i minuti avanzano, più il rischio che la voce della nostra presenza si espanda, aumenta. Insomma, ci fermiamo, mi spiega dove sono i pericoli. Nella base hanno un piccolo orticello. I soldati sono curiosi ma non mi piace come parlano alle mia spalle. Shahab comincia a mettermi fretta in maniera molto cortese: “Dovremmo andare”. Uno di loro dice di voler offrimi dell’hashish. Perché no. Qui è la migliore al mondo. Rulla una sigaretta, l’accende e me la porge. Faccio due o tre tiri. È ottima. Shahab insiste di voler andare. Deve sapere qualcosa. Ma il comandante è curioso. Tutti pongono troppe domande. Pensano che sia un soldato americano. Anche la polizia locale afghana, creata dagli americani, è contro gli americani. Ironia allo stato puro. Nei distretti remoti del paese, gli americani non hanno una buona nomea come si può constatare. Ma sono milizie inaffidabili. Fumando hashish, non rispettano il loro comandante.

 

“Uno di loro voleva ucciderti, Filippo” dice Shahab quando siamo sull’aereo per Kabul. “Abbiamo un fucile, usiamolo contro l’americano” continuava a dire. L’analfabetismo fa anche questo. Non crea differenza fra le persone. È un rischio. Ma una storia vera. Come poche. Perché questo Afghanistan, che non riconosce più nessuno, vive ogni giorno. Solo i giornalisti che mettono in pericolo la propria vita possono raccontare la verità. Non è di certo stando dietro ai muri sicuri che si fa giornalismo. Il mio lavoro e la mia vita valgono solo 300 euro per le redazioni. Ma in verità, è la loro che vale meno della metà, perché la mia è molto più ricca.

 

Prima di andare all’aeroporto, ci fermiamo in città, poniamo alcune domande sulla situazione in città. Sulla mafia e gli omicidi. “Se parlo, amico, stanotte non sarò qui”. Qualcuno ha una gola un po’ più profonda. Ma non c’è più tempo. All’aeroporto i controlli sono infiniti. 5 controlli, compreso quello antidroga. Ti sfinisce. Al terminal, in stile sovietico, sorseggio un succo di mango. Anzi due. Sono felice di tornare a Kabul. Mi sento a casa e al sicuro. Fantastico, magico Afghanistan.