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15. Racconti Burkinabé

Chez Giuliana

 

“Ma chi, l’italiana?” chiede la guida quando gli dico di portarmi all’hotel Chez Giuliana. Ormai, un nome noto a Ouagá. Il mondo di “Da Giuliana” è molto divertente. Nei numerosi anni che ha passato in Burkina Faso, ha saputo creare una pensioncina molto accogliente per stranieri in arrivo da tutto il mondo. Operatori umanitari, giornalisti ma anche turisti, categoria oggi scomparsa dato il rischio di terrorismo. “Ti passa davanti il mondo. È bellissimo. Ma tu, sei bloccato, non puoi andartene” – spiega Giuliana con tono poco scherzoso- “Sei come… ecco, sei come un pastore con il bestiame, ha ha ha”. Ride a squarciagola. Impazzisco.

A dire il vero, Giuliana l’avevo già conosciuta anni fa. Dieci per l’esattezza. Un’altra epoca, allora studente universitario, il mio secondo viaggio nell’Africa sconosciuta. Ero arrivato con il mio amico Ricky, la sua ragazza Giorgia e Laura, un’altra amica. Giuliana l’avevo vista di sfuggita una notte, prima di riprendere il volo per l’Europa. Ricordo che non ci avevo parlato molto però mi è sempre rimasta impressa da allora. Chissà perché.

 

Infatti, quando sono tornato quest’anno, me ne ricordavo come fosse ieri. Giuliana, in dieci anni è invecchiata sì, ma l’ho trovata in grande forma. Ammetto che il solo fatto di poter parlare la propria lingua mi ha fatto apprezzare ancora di più la sua persona. Soprattutto perché gli aneddoti che racconta sono epici.

 

Giuliana ha passato più di 20 anni in Burkina Faso. Torinese, è arrivata con un’idea di fare dei progetti umanitari, non di certo quello di aprire un albergo. Ma, ora, in mezzo a una città sicuramente poco attraente per la sua bellezza, il suo alberghetto è un piccolo “locus amenus”.

Siede dietro la sua scrivania, oggi ultrasettantenne, dando il benvenuto alle persone e controllando il computer. A volte, quando non c’è nulla da fare, gioca al solitario. Il suo braccio destro, Moussa, è un personaggio molto buffo. Inizialmente un sarto, con il tempo è diventato indispensabile per Giuliana. Un tuttofare. “A volte litighiamo. Se ne va dicendo che si licenzia” – racconta Giuliana – “poi, dopo due giorni, ritorna miracolosamente senza dire una parola e riprende a lavorare come se niente fosse”. Moussa ha sempre la battuta pronta. Guardiamo insieme le partite di calcio nella stanza di Giuliana, dove ha installato Canal +, esattamente dietro la reception. È, sfortunatamente, uno juventino. Irritante, in particolare quando gioca il Milan. Comincia a sfottere. Scherziamo entrambi, non serve dirlo. E non mi faccio di certo mettere sotto. Cominciamo un circo, gridando dietro la reception dove Giuliana ha posto una piccola brandina e una zanzariera per la notte. Da buona torinese, Giuliana è stata sposata insieme a un tifoso sfegatato del Torino. “Moussa, gli juventini sono tutti finocchi, così diceva mio marito” dice, prima di sbellicarsi dalle risate. È così. Giuliana, ride. Ha perso quel pudore che caratterizza le persone quando non conoscono qualcuno e soprattutto ha smesso, come dice anche lei stessa, di arrabbiarsi per le cose che non funzionano o per le piccole sciocchezze che fa il personale. “Vedi, io so benissimo che fra gli impiegati c’è complicità. A volte penso che non vedano l’ora di vedere la vecchia fuori dalle scatole” – e ride – “Ognuno di loro ha un piccolo business nell’hotel. Chi va a prendere il pane, ha il monopolio e ogni giorno rubacchia qualche franco, poca roba. Chi invece va al mercato fa lo stesso con la frutta. Anche Moussa, anni fa, quando ero arrivata in Burkina Faso dopo un viaggio in Italia e la casa non era ancora pronta, l’aveva letteralmente occupata casa con i suoi compari. Per sbatterli fuori era stata una tragedia perché lui non voleva mettersi in mezzo. Diceva che non poteva mancare loro di rispetto. Ci era voluto mio figlio”. Al sentire queste storie, la risata di Giuliana è intercalare. Ha imparato a prendere la vita con molta filosofia. Immagino che vivere in un paese come il Burkina Faso non deve essere semplice per uno straniero. Dopotutto, la popolazione è molto fiera e gli ordini, da uno straniero, difficilmente li prendono.

 

Con il personale c’è sempre una storia divertente. Se raccontati da lei, poi, lo diventano ancora di più. I guardiani notturni che dormono, i tassisti che vengono la notte per dormire in macchina di fronte all’hotel prima di portare qualcuno all’aeroporto (i voli delle compagnie internazionali decollano alle solite ore impossibili tipiche dei luoghi più sperduti della terra). Poi c’era il guardiano che diceva di non poter fare l’amore con la moglie di giorno, ma solo di notte. “Visto che aveva il turno notturno, ogni 15 giorni lo lasciavamo andare a casa di sera, così che potesse approfittarne” commenta Giuliana, con Moussa di fianco che ancora ricordava e sorrideva. Ma anche Moussa è un personaggio. “Quando una volta ha picchiato la moglie, pensando che io non lo sapessi, lei mi ha chiamato. Io ho chiesto a Moussa come stesse la moglie in ospedale. Mi ha subito chiesto: “come fai a saperlo?”. “Allora è vero”, ho ribattuto. “Moussa diceva che avrebbe fatto prima ad ucciderla. Gli ho fatto notare che se l’avesse fatto, sarebbe andato in prigione. Ma lui, con una calma olimpica ha detto, e perché? Se io la uccido, le prime persone che nasconderebbero il delitto sarebbe la famiglia, perché sarebbe un’onta e significherebbe che le altre figlie hanno un carattere brutto. Di conseguenza non troverebbero nessuno a cui darle in moglie”. Giuliana guarda con gli occhietti vispi, sorridente, il segnale che la prossima risata è in arrivo. Poi, divertendosi ancora di più ricorda la vicenda della guardia che ha perso la sua virilità dopo essere stato toccato da un signore russo, anziano e omosessuale. “Il guardiano, andato ad aprire in fretta la porta, era nudo, con solo l’asciugamani. Il cliente, lo ha ringraziato, dandogli una pacca sulla spalla e sfiorandoli le parti basse per scherzare. Si è seduto per ore senza parlare. Mio figlio è andato a chiedergli cosa fosse successo. Ha risposto che ora non avrebbe mai più avuto un’erezione. Mio figlio ha risposto allora: “prova andare a casa da tua moglie e vedrai cosa succede”. Ha detto di no, che lo sapeva già, perché aveva sempre un’erezione”. E via, ancora, grasse risate. La cultura animista è tutta da scoprire.

 

Giuliana sembra prendere tutto alla leggera. Non si fa troppi crucci. E forse è giusto così. Forse perché nella vita ha vissuto molte cose: “Una volta ero stata male” ci pensa un attimo prima di continuare, “ah sì, ho fatto un ictus di 12 minuti. Avevo perso la capacità di scrivere e parlare. Ero allora scesa in strada e un’amica mi aveva visto, capendo che qualcosa non quadrava e chiamando un’ambulanza. Quando l’ambulanza arrivò, era passato tutto. Dissi ai medici che stavo bene. Ma mi obbligarono ad andare in ospedale”. Forse, è il modo giusto di relativizzare le cose.

 

La notte che, insieme ad A. e Consta siamo tornati da Tanwalbougou, quel viaggio tremendo e lunghissimo, Giuliana era ancora in piedi alle 2 del mattino. Affamati, ci ha nutriti, scaldandoci due pizze e preparando due foglie di insalata per Consta, il quale non può mangiare pomodori, formaggio… nulla. Un afghano, in un ristorante di Londra, gli ha pure detto che in Afghanistan sarebbe morto prima per la fame che per un’esplosione. È lo humor politically incorrect, che io adoro. 

 

Giuliana, fra battute e scherzi, mi racconta molti aneddoti che caratterizzano la società burkinabé, come si devono comportare in famiglia, il modo di pensare. Insomma, è una persona che ha conosciuto il paese in cui vive in profondità. Arrivata a una certa età, ha capito che il modo migliore per convivere è accettare e chiudere un occhio, senza pretendere di voler cambiare le cose, come si tende sempre a fare. Forse è il modo giusto per migliorare. Giuliana, semmai un giorno tornerò in Burkina Faso, sarà sicuramente una delle prime persone che vorrò incontrare.

 

“Vogliono me”

 

La favola di Thomas Sankara la conoscono tutti. Tutti hanno sentito parlare del grande capitano che ha rivoluzionato l’Alto Volta, cambiandogli il nome in Burkina Faso, il “paese degli uomini integri”. Ma è spesso stato avvicinato al comunismo, semplificando la sua visione, che di comunista aveva ben poco. Era prima di tutto un leader panafricanista, ovvero che voleva rompere le catene del suo paese dal giogo europeo, americano, del sistema che opprimeva il paese a livello economico (e indirettamente politico).

 

Sono sempre stato un adoratore del panafricanismo, schierandomi al fianco dell’ideologia e delle persone che mi raccontano di quanto l’Africa sia ancora sottomessa sebbene, all’apparenza sia indipendente. Sankara, in Burkina Faso e Lumumba in Congo Kinshasa, sono per me gli esempi lampanti. Gli altri, i vari Kenyatta, Nkrumah ecc… sono stati più corruttibili. Ma loro due, uno burkinabé, l’altro congolese, sono morti cercando di cambiare il loro paese e, in un certo senso, il mondo. Difatti, proprio perché hanno cercato di cambiarlo, hanno pagato con la vita. “Un sistema non si cambia. E di certo, non lo può cambiare un africano” sembra essere il motto. “Ma che, stiamo scherzando? Un africano che si mette di mezzo al Fondo monetario internazionale, alle Ong, alla Banca Mondiale? Deve morire, è un ostacolo. Eliminiamolo, riportando l’ordine. Ma con cautela, perché nessuno deve accorgersene troppo. Sarà impossibile mascherarlo, ma è sicuramente possibile sviare le attenzioni e riportare tutto al normale, facendo desistere chi si ribella. Un po’ com’è successo durante le primavere arabe, le rivoluzioni colorate. Tanto casino, morti, gente immolata, canti grida di libertà, moti, carta stampata tanta da far fuori un quarto dell’amazzonia per poi peggiorare le cose o, ancor peggio, ricostituire la stessa cosa sotto forma differente.

 

Dal 2015, il Burkina Faso è riuscito a liberarsi di Blaise Compaoré, primo responsabile dell’assassinio di Thomas Sankara quel 15 ottobre del 1987. La cosa più triste è che Compaoré era uno dei suoi amici storici. Compaoré è stato scacciato dal popolo. Ha vinto il popolo? Certo che no. Kaboré è salito al potere, una persona vicina al presidente precedente. Ci lamentiamo che in Italia abbiamo una casta, ma i politici, in sé, sono una grande casta corrotta in tutto il mondo. Che hanno il potere e ne abusano. Ma almeno, con l’uscita di scena di Compaoré, il nome di Sankara è ritornato a girare per le strade, un memoriale è stato costituito proprio dove, 30 anni fa, è stato assassinato. Non è più un tabù.

 

Chi era Sankara? Un uomo dritto, giusto. Forse, aveva i suoi difetti come tutti. Non era amato da tutti. Ma nessuno lo è al mondo. Era però uno che lavorava per riportare il rispetto e soprattutto la dignità alla gente. “Se avesse guadagnato qualcosa da eventi internazionali e pubblici, lo avrebbe messo nelle casse dello stato. Non se lo intascava. Aveva anche rubato un aereo a Gheddafi, visto che lui ne aveva troppi, facendo arrabbiare molto”. Lo ricordano così i suoi più vicini collaboratori ancora in vita oggi. Non chiedeva tanto. La dignità, una cosa che oggi, nel mondo, sono in troppi a non avere. In Africa, le persone che vivono come animali, sono troppi. È riuscito, nei pochi anni della sua presidenza, a ridare spirito al suo paese, un buco nero nell’Africa post-coloniale, dimenticato da tutti. Ma per fare questo, ha pestato i piedi ai poteri forti, ai francesi, agli americani, in un periodo di tarda guerra fredda. Andava eliminato. E così è stato fatto. La cosa peggiore, è stata che Blaise Compaoré, il suo braccio destro, lo ha tradito, accettando i soldi e il potere sporco pugnalando un amico. Pugnalare un tuo amico per il potere. Io non so se ci riuscirei.

 

Al memoriale, ora, oltre a una statua, ci sono pure i souvenir. I giovani dicono di basarsi sulle sue idee. Ma non è sufficiente. Il paese, come dice Alouna Traoré, l’unico sopravvissuto dell’attentato contro Sankara, è ritornato ad essere “normale”, corrotto. Un paese integrato nel sistema mondiale. Il mondo eccezionale che avevano vissuto per pochi anni, era finito con il corpo crivellato di proiettili che si accasciava a terra di Sankara.

Traoré è un tipo simpatico. Si vede che nasconde una grande tristezza. Non nasconde nemmeno di aver passato degli anni in depressione. Ma ora racconta la tragedia in maniera molto serena. Mi mostra cosa è successo quel giorno, il 15 ottobre del 1987. Mostrando i gesti delle mani con le quali Sanakra è uscito dalla sala, un istante prima di essere assassinato. Traoré parla parla parla, illustra le idee del tempo. Porta un berretto come Cabral, grande idealista e panafricanista caboverdiano.

 

“Quel giorno si è spento il paese. È tornato al punto zero. È tornato ad far parte dei “giusti”, del sistema corretto, che tutti devono seguire senza porsi domande”. Perché? Non è lecito chiederselo, è così e basta.

 

Dopo Traoré, che mi porta in giro sulla sua motocicletta per Ouagadougou spiegandomi la città di Sankara, urlandomi teorie e pensieri mentre innesta le marce, incontro il colonnello Sanagou. Un amico di infanzia di Sankara, un compagno di armi del grande capitano. “Quando ha saputo che Sankara era stato ucciso?”. Interrompe la sua lunga chiacchierata riecheggiando l’infanzia vissuta con “Gringo”, come soprannominava Sankara. Si mette due dita coprendo gli occhi. Piange per due minuti. Silenzio. Silenzio assoluto, assordante, terribile. Rivivo il suo dolore nel mio essere. Lo sento. Non so esattamente cosa gli faccia più male, il fatto di perdere un amico di infanzia con il quale facevano danni, oppure perdere un leader che stava costruendo un futuro degno per tutti i suoi connazionali. Mi spiace torturalo così. Il mio lavoro è anche questo. Dietro di lui, una foto del capitano. Indimenticabile.

 

Esco dalla sua casa pieno di domande. Guardandomi intorno e vedendo la miseria, le case decrepite, la gente affamata. Il mondo delle Ong, dell’Onu, delle istituzioni internazionali e nazionali che dicono di volere un cambiamento (nel loro portafogli forse). In un mondo dove si fanno convegni, riunioni ma niente succede e va bene a tutti. Ma quando qualcuno si azzarda a dire qualcosa, diventa un nemico, un complottista. Succede anche a livelli regionali da noi. Non bisogna andare da Sankara. Se vuoi fare un cambiamento, ci sono 20 squali che ti vogliono mangiare.

 

“Si ma Sankara era un personaggio ingigantito” dice A. “Aveva nemici ovunque, soprattutto nella società tradizionale”. E certo che ce li aveva. Quei leader tradizionali oggi, sono felici di mangiare con i soldi internazionali, che li corrompono per farli stare zitti. Ma questo, io non lo posso dire perché diventerei pericoloso. E non avrei la visione politically correct occidentale, pro libertà, anti-Trump, pro-democrazia, Lgbt, diritti delle donne, diritti dell'uomo… quando poi non esiste nulla di tutto ciò se si guarda in profondità. Non significa essere contro, significa appoggiare delle iniziative, non solo parole. Fortunatamente non ho nessun peso. E quindi non sono a rischio. Sankara rimane un esempio per me. Un esempio di qualcuno che ha creduto di poter cambiare le cose e che ci è quasi riuscito, prendendo iniziative. Oggi non ho proprio idea se al mondo ci sia un personaggio come questo.

Sono felice di aver potuto approfondire le sue idee, la sua storia. Era una cosa che volevo fare da molto tempo.

 

“Corrompiamoci, dai”

 

Entro nel consolato maliano con Omar per prendere il visto, prima di partire per Bamako. Voglio… devo prenderlo. È un venerdì di inizio marzo sul mezzogiorno. Momento difficile per i musulmani. Alle 13.30 c’è la preghiera. Delicato perché, a chi prega in moschea in maniera devota si contrappone una fascia di gente che se ne approfitta per chiudere baracca e burattini e cominciare un weekend allungato.

 

“Vuole il visto?”- chiede il segretario, unica persona che sembra abitare l’imponente edificio color sabbia- “Prego di qua”

“Buongiorno, sì, grazie”, rispondo.

 

Il segretario si siede dietro la sua scrivania, nel suo ufficio spazioso e tipicamente vuoto. Non ho mai capito perché alla gente piaccia avere i tre quarti dell’ufficio completamente vuoto.

“Vuole un visto per cosa?”

“Vorrei andare in Mali per turismo” (mento, chiaramente, ma l’accredito lo prendo a Bamako, altrimenti mi farebbero problemi, forse dovrei corrompere…alt…il forse non so se sia necessario)

“A fare cosa?”

“Visitare un amico”

“Bene, se vuole il visto ora, sono 30 mila franchi più l’express…che sono 10 mila. Svelto perché poi chiudiamo. Oggi c’è la preghiera”. Certamente, signor Segretario, non vede l’ora di andare in moschea o di andare al bar? Ma a me fa comodo, perché sicuramente si sbrigherà a fare le cose in fretta per chiudere il suo ufficio.

 

Ci spedisce fuori, dicendomi di compilare un formulario. Odio i formulari. Li compilo sempre a metà e la prova che non fregano niente a nessuno sta nel fatto che nessuno mi chiede mai di correggerli. Ah sì, forse da qualche parte me lo chiedevano solo perché non avevano nulla da fare e volevano rompermi le scatole. Tipo a Panama, dove il doganiere mi aveva costretto a chiedere un numero di telefono locale di un amico, che non avevo. Avevo dovuto chiamarlo da una cabina telefonica dopo aver pregato in ginocchio 20 persone di prestarmi una moneta da un quarto di dollaro. Lo faceva solo per rompermi le scatole. Se gli avessi mostrati una valigetta piena di verdoni, mi avrebbe fatto un inchino. Ma al massimo potevo mostragli un paio di scarpette da corsa puzzolenti.

 

Chiedo a Omar di dirmi un hotel a Bamako, il primo che gli venga in mente. Metterò quello. Non ho il cellulare, obbligato a lasciarlo all’entrata. Metto due date, il numero del passaporto e estraggo una foto. Riporto il formulario nell’ufficio. Il mio amico segretario, sorridente, stampa il visto su una delle poche pagine rimaste vuote del passaporto. Lo prepara, ci scrive sopra la data, il nome, i giorni. Tutto pronto. “Devo farlo firmare dal console, altrimenti non vale. Svelto, vieni con me”. Bussa alla porta del console e mi lascia entrare. Entro nella sala. Ancora più grande, ancora più vuota. Solo una scrivania. Oltre a farmi mille domande dettagliate, alle quali non so rispondere, perché io, il Mali non lo conosco, mi ha mostra mille foto della città. “Che bello dicevo” cercando di assecondarlo per tenermelo buono.

“Senta, ma questo hotel che ha scritto sul formulario non lo trovo su Google” mi chiede.

“Alcuni hotel non ci sono” rispondo, comincio a pensare che voglia mettermi i bastoni fra le ruote, forse per ricevere qualche soldino extra per il weekend. Poi controlla il numero di contatto del mio amico. Ho messo un collega di lavoro, ma per sbaglio metto il suo numero senegalese. “Questo non è un prefisso maliano, è senegalese” fa notare. Se ne è accorto.

Gli rispondo che io lo contatto solo su quello. “Bisognerebbe chiedergli quello maliano”. Mannaggia, che palle, sembrava andare tutto liscio. Allora mi fa uscire, prendere il telefonino dall’entrata e rientrare. nel frattempo, il mio collega da Bamako mi manda il suo numero. Tutto a posto. Dopo 40 fotografie di ponti e palazzi amministrativi, finalmente mi libera.

Torno dal segretario. Firma il documento compilato e poi, prende il passaporto rosso e lo sbatte, con delicatezza, esattamente fra me e lui, quasi in segno di sfida.

“Allora, come facciamo? Fa l’express per oggi?” sorridente.

“Oddio, se potessi attendere… Quando posso venire a ritirarlo?” chiedo, cercando di non cedere al ricatto, pur sapendo che ho bisogno del passaporto se voglio lavorare.

“Beh, non saprei, bisognerà aspettare” risponde confidente. “Ora chiudiamo, c’è il weekend e quindi potrà chiamarci lunedì”.

 

È ovvio che l’express non è l’express come nelle poste svizzere. Questo vuole i soldi per andare in moschea a pregare e poi al bar. E io so benissimo che senza passaporto, sarà difficile spostarsi. Un solo controllo e sarebbero casini. Parliamo un po’ del più e del meno, lo lavoro ai fianchi. Ridiamo, mi chiede le mie aspettative sul Mali. Non menziono nemmeno il problema con la guerra. Dopo qualche scherzo, finalmente ci siamo. Dopotutto è già l’una del pomeriggio e, lui, ha sempre meno tempo di andare in moschea.

 

“Senti, sei simpatico. Per gli svizzeri l’express oggi vale 5 mila”

 

Mi fa lo sconto di 5, accettabile. Gentile. AH AH. Guardo Omar. Mi dà un’occhiata come per dire: “vai, ormai, sono i soldi che spenderesti per prendere il taxi andata e ritorno dall’ambasciata, lunedì”. Prendo il biglietto verde da 5 mila e glielo porgo. Lo inserisce in una busta. “Grazie mille” dice. “Ci mancherebbe”, mon frère. Fatti una bella bevuta. Un’ora è bastata. Che spettacolo la corruzione, eh? Mai ricevuto un visto così in fretta.

 

La corruzione ha i suoi effetti magici se hai i mezzi, ma sono devastanti se non hai i contatti o non hai soldi. E c’è chi, a diversi livelli, se ne approfitta. All’aeroporto di Bamako, controllo raggi X, il poliziotto mi ferma. Mi fa segno con le dita di venire verso di lui per un controllo, pensando “vieni vieni che nonn mi scappi, tu, bianco, devo prenderti qualcosa solamente perché sei bianco”. Controlla da cima a fondo il mio zaino, aprendo ogni tasca. “Non puoi portare le batterie sull’aereo” mi dice. Ahi, ha trovato qualcosa da rubarmi. Meno male che sono batterie di qualità mediocre comprate a pochi centesimi nel mercato di Bamako.  

“Ah sì? E da quando sono proibite?” rispondo.

“Da ieri”. Non lo sapevo. Batteria AA o AAA sono proibite? Povero doganiere, cosa si è dovuto inventare per rubare tre batterie ormai scariche. Queste cose mi fanno incazzare. Sono talmente stupide. E a volte, se non sono le batterie, forse sono le memorie della macchina fotografica. E lì si che sono problemi. Ma sorrido, intanto mi tolgo pure della zavorra.

 

I politici, corrotti fino al midollo in tutto il mondo, anche nella piccola Lugano (anche se dalle foto Instagram sembrano tutti angeli) diventano pure intoccabili quando hanno la carica ministeriale o ufficiale. Sono totalmente incoscienti che, prima o poi, dovranno tornare a leccare il culo alla gente per essere rieletti, a meno che non facciano un colpo di stato prendendo il potere o cambino la costituzione. Entro nell’ufficio del ministro Wague, ministro della riconciliazione nazionale del governo di transizione a Bamako. Ah, sì, giusto, nell’agosto del 2020, una giunta militare “popolare”, ha fatto un colpo di stato pacifico. Ora ci sono militari al governo, che si erano riproposti di migliorare le cose nel paese.

Wague, che prima era un capitano dimenticato da tutti dell’esercito maliano, oggi è ministro. Purtroppo, lo devo intervistare. So che ha incontrato un gruppo di cacciatori tradizionali per discutere di negoziati con i jihadisti qualche giorno prima e mi interessa sapere se ha qualche dichiarazione da fare. Nulla di più. Ma ora lui è potente. Per 4 ore siedo nella sua sala d’aspetto. Passano donne, uomini, anziani, bambini. Tutto. Io rimango seduto, con France 24 dietro il mio orecchio che continua imperterrito a sparare notizie sul Covid. Dalle 4 del pomeriggio fino alle 7.30. Finalmente, la segretaria mia chiama, “le journaliste”.

 

Entro nell’ufficio. Seduta di fianco a lui, una sua amica, amante, sorella. Non so. Tacchi a spillo, jeans. Non è di certo la sua collaboratrice personale. Con la flemma, non saluta nemmeno. Il ministro, in divisa, mi saluta. “In cosa posso esserle utile?” mi chiede. Gli dico, “per un’intervista?”, con tono sarcastico. Onestamente, ne ho piene le scatole di aspettare che si faccia… dalla sua amica seduta di fianco che sembra non essere nemmeno capace di parlare. “Ha ha, impossibile, deve parlare con la capa della comunicazione” mi dice.

 

“Come scusi? Dopo 4 ore che aspetto? Con il dovuto rispetto, signor ministro” ribatto seccamente

Figlio di puttana. Solo perché hai il potere pensi che il mio tempo valga meno del tuo? Che nervoso. Ma mi trattengo anche se l’avrei mandato a quel paese all’istante.

“Dobbiamo comunque essere gentili, vediamo cosa possiamo fare. Cosa vuole sapere?”

Gli dico l’argomento. Mi dice di discuterne con la sua segretaria fuori dall’ufficio e poi tornare. La sua segretaria mi accompagna in un’altra sala. Ci sediamo. Mastica una gomma, con fare indifferente. “Allora?” mi chiede. Le parlo, scrive degli appunti sull’iphone (almeno spero non stesse guardando tiktok) e esce. Torna dopo 10 minuti e mi dice: “Sono mortificata, ma il ministro è stato chiamato alla presidenza, deve partire ora”. Bravo Wague, sei riuscito a scamparla. Ti odio per avermi fatto perdere tempo ma da politici e militari non mi aspetto altro.

Cerco quindi di organizzare un meeting con un suo subalterno. Un certo Bolly. Lui, effettivamente, ha una storia interessante, prima di vendersi alla politica si occupava di de-radicalizzare i jihadisti nel centro del Mali. Mi dà un appuntamento nello stesso palazzo, ma al piano di sotto, alle 3 del giorno seguente. Entro nell’ufficio.

 

“Cosa vuoi?” mi da del tu, direttamente – “Mi spiace, ma devo andare dal ministro fra 10 minuti e non ho tempo”. Quindi, ancora Wague mi ha fregato? Lo vorrei tanto ammazzare, nel senso figurato ovviamente. “Ma tranquillo, ci vediamo domani”.

“Domani parto” rispondo, perdendo le speranze.

“Ah, ok dai,  allora stasera alle 7 vengo dove sei tu e parliamo”

 

Ha ha ha, ma l’ha detto veramente? Sicuramente, certo, non mi aspetto altro, vuoi che ti preparo un spaghetto alle vongole per le 7.30? Chiamami quando parti che butto la pasta. Secondo voi è arrivato? Macché, lo sto aspettando ancora adesso e le vongole si sono freddate.

 

Che spasso i politici. Quando sono al potere diventano inarrivabili. Ma quando scendono dal trono, ritornano ad essere stranamente simpatici. Bolly, ci rivediamo dopo il prossimo colpo di stato maliano, poi mi darai tutte le informazioni del caso. Morale della favola, i politici maliani sono come i nostri politici. Grandi da fuori, ma piccoli dentro. E la corruzione in Africa è palese, mentre la nostra è nascosta. Ma non illudetevi che non esista.