4. In Armenia, la memoria non si cancella facilmente
Sull’aereo proveniente da Mosca si vedono i primi segnali del conflitto i corso in Nagorno-Karabakh. Alcune persone salgono con zaini militari, altri con bandiere cucite sulle giacche in pelle. I colori sono quelli armeni, blu, rosso e arancione. Sono volontari che tornano per difendere la propria patria. Forse armeni ma cresciuti all’estero, parte della diaspora. Tutti pronti a combattere. Non si parla, ormai, solamente di semplici scaramucce. La guerra esplosa nuovamente nel Karabakh il 27 di settembre è divenuta costante, senza sosta. Gli azeri bombardano quotidianamente la capitale della repubblica dell’Artsakh (come gli abitanti del Nagorno-Karabakh chiamano la loro terra natia), Stepanakert, costringendo tutti a rifugiarsi sotto gli edifici in bunker improvvisati ma ben attrezzati.
Atterrati a Yerevan, riscontriamo i primi problemi. Io e Emanuele, il mio collega fotografo, abbiamo passaporti svizzero e italiano. Ci fermano alla frontiera. Abbiamo il timbro turco sul passaporto. Possiamo essere potenziali spie. Ci trattengono per almeno mezz’ora. Dopo alcune esitazioni, ci lasciano uscire. Nelle valigie, i giubbotti antiproiettile fanno dubitare anche i doganieri. “Press” diciamo. “Welcome” rispondono, quasi scusandosi del disagio causato dalle domande. Sono felici di accoglierci.
Sono quasi le 6 del mattino, quando Kim, rappresentante del ministero degli affari esteri armeno, ci aspetta all’uscita dell’aeroporto. Siamo esausti. Ci portano a fare il test PCR. Dobbiamo provare la nostra negatività al Coronavirus. “Fra 7 ore saprete se è negativo. Se tutto è ok, potrete ricevere il vostro accredito per lavorare”. Facile, penso. Aspettiamo il taxi in una sala VIP, bevendo qualcosa. Vogliono accogliere bene i giornalisti. Un po’ di propaganda non fa mai male. Partiamo per l’hotel. Non c’è wifi, non c’è colazione. Ma non fa nulla. Paghiamo 6 euro a testa. L’importante è dormire 3 orette prima di andare a prendere l’accredito.
Quando riceviamo l’ok da kim, dicendo che siamo negativi al Covid, lasciamo l’hotel. Il tassista che ci porta in piazza della repubblica, in centro città, indovina che siamo giornalisti, esclamando con tono sorpreso: “Pressa?”, è felice. Noi “Da, da”. E lui “No money, no money”. Non vuole essere pagato, ma come? Gli rispondo dicendo “Da money, da”, con un russo maccheronico, anzi inesistente. Lui insiste. Dobbiamo prendere qualche Dram armeno, la moneta locale, e buttarla nel taxi. Si emoziona e porta la mano al cuore. A dire il vero sono sorpreso. È la prima volta che non vengo visto male perché giornalista. Fa quasi ridere. Di solito ti guardano come un pericolo, questa volta quasi come un eroe. Costatazione interessante. Andiamo al ministero. Kim ci consegna l’accredito. Ultima tappa prima di poter partire verso sud, direzione Stepanakert (la capitale del Nagorno Karabakh), è la rappresentanza, o ambasciata, dello stato, surreale visto che non è riconosciuto quasi da nessun altro paese al mondo se non l’Armenia. All’ambasciata cominciano i problemi. Hanno cambiato le regole in mattina, dice la burocrate. “Dovete aspettare qui a Yerevan il vostro turno per entrare a Stepanakert, ci sono troppi giornalisti”. Non potevano darci notizia più brutta. Proviamo a convincere la signora che non è possibile. Dobbiamo almeno avvicinarci per essere più veloci. Ma non c’è verso. Cominciamo a chiamare il ministero armeno. Alla fine, sono loro che comandano. Dopo discussioni, otteniamo finalmente il permesso di lasciare Yerevan e dirigerci a Goris, la cittadina armena a sud più vicina al confine con la repubblica dell’Artsakh, come gli abitanti del Nagorno Karabakh chiamano la loro terra.
La sera prima di partire, Narek, un contatto con il quale abbiamo parlato e intenzionato ad aiutarci, ci invita a una grigliata. Siamo in tre, io Alex ed Ema. Non sono entusiasta. Sono molto stanco, appena tornato dall’Afghanistan e non ho dormito nulla per almeno una settimana. Ma per cortesia, mi sforzo. Ci hanno aiutati molto e del resto, può essere interessante entrare nella mentalità del paese in un momento di tensione. Gli armeni si sentono direttamente coinvolti nel conflitto. Molti sono i volontari che sono partiti per il fronte e l’esercito appoggia direttamente quello del Nagorno-Karabakh. Non è un segreto. Lo stato marziale è entrato parzialmente in vigore anche in Armenia e molti hanno lasciato il proprio lavoro. L’Armenia, ufficialmente non ha il suo esercito in Nagorno Karabakh, sarebbe una dichiarazione di guerra diretta.
L’Armenia che ho conosciuto nel mio viaggio precedente, 8 anni fa, è cambiata. Yerevan è diventata una città molto più europea, con molte più attrazioni, bar e ristoranti. Non era così una volta. La gente è però molto gentile e i soprattutto i giovani sembrano parlare più inglese, staccandosi dal forte legame con la Russia. Ma non è solo positivo il cambio. In un periodo di guerra, la mobilitazione generale ha toccato tutti. La gente soffre e non lo nasconde per forza. “Lavoriamo molto di più ora” dice Narek “prima finiamo il nostro lavoro quotidiano e poi aiutiamo l’esercito oppure facciamo volontariato per aiutare la gente al fronte. Raccogliamo materiale oppure aiutiamo persone come voi giornalisti ad ottenere permessi e contatti utili”.
Narek ci porta fuori città in una distilleria di vino di un suo amico. Incontriamo altri ragazzi che stano grigliando. Ci accolgono con un caloroso abbraccio. “Questo è il nostro luogo di ritrovo. Ci ha salvati dal lockdown e ora anche da questa situazione. Tutti in città sono molto tristi, nessuno esce. Ma io dico che bisogna reagire perché l’economia deve continuare a produrre. Molti hanno lasciato il lavoro e sono andati al fronte” dice Narek. Lui e i suoi amici sono tutti riservisti. In Armenia lo si è fino a 45 anni dopo aver svolto 2 anni di servizio militare obbligatorio. “Siamo tutti pronti a partire. Quando ci salutiamo, non sappiamo mai se dopo qualche ora non ci rivedremo perché possiamo essere richiamati in servizio da un momento all’altro”. I ragazzi cucinano bene la carne. La mangiamo con un po’ di verdura. Cetrioli e pomodori. Aprono il vino della casa. Molto buono. Assaggiamo del formaggio con il pane locale. Tutto squisito. “Non odiamo gli azeri. Ma sono invasati. Stano perdendo molti uomini al fronte. Devono attaccare dal basso. Lo sappiamo, per conquistare, devono avere un rapporto di forze di 1 a 3 superiore. Ce l’hanno, ma non sembra bastare. Sono avanzati di poco”. I ragazzi sono molto grati a noi giornalisti per venire a raccontare la loro storia. Hanno ancora impresso nella mente il genocidio del 1915 e non a caso, visto che oggi la Turchia si è apertamente dichiarata alleata dell’Azerbaijan in questa guerra. “Abbiamo paura” sembra essere un’espressione sulla bocca di tutti. Alla fine della serata ci riportano al nostro hotel. Ci abbracciano, ci augurano buona fortuna e si offrono di continuare ad aiutarci. Penso ci rispettino molto. Non so quanto questo possa essere un vantaggio. Alla fine, il nostro lavoro è sempre dettato dall’imparzialità. Ma lo prendo come un segno di buona volontà e lo apprezzo. Alla fine, oggi, i giornalisti sono visti perlopiù come degli ignoranti, falsi, boriosi oppure bugiardi.
Venerdì mattina, 24 ore dopo il nostro arrivo in Armenia, possiamo finalmente dirigerci verso sud, a Goris. Siamo in contatto con molta gente che è già in Nagorno-Karabakh, ma non abbiamo ancora l’accredito per lavorarci. Lo riceveremo a Goris. Nel frattempo, seguiamo le notizie. Artur, un autista, ci accompagna a Goris. Non parla inglese. Ma con google translate posso cavarmela capendo cosa vuole comunicarci. Gli pongo varie domande. Dice tranquillamente: “Mio figlio David, 24 anni, è al fronte ora. È un sergente. Ho paura, ma difende la madrepatria”. La macchina sfreccia verso sud. A destra, sorge imponente il monte Ararat, già ricoperto di neve. La montagna sacra, storica degli armeni. È stupenda. A soli 40 chilometri ma già in territorio turco. Artur si ferma per farci degustare del vino e della frutta. Vuole pagare tutto. Insistiamo dicendo di no. Ma non c’è verso. Dopo 4 ore, ecco Goris. Me la ricordo, non è cambiata molto. Una cittadina attorniata da montagne e incastonata in una vallata gelida, dove il vento non perdona ma il verde degli Alberi, dei prati e delle montagne è rigoglioso. È da qui, che vogliamo partire per entrare finalmente in Nagorno-Karabakh, aspettando il nostro permesso per lavorare nella repubblica autonoma e autoproclamata, raccontando un conflitto dimenticato ma che ha già fatto più di 400 vittime.