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Rifugiati nei bunker, uomini al fronte

 

Improvvisamente le sirene. Baam. Dopo qualche minuto, baam un’altra volta. È sera, I droni attaccano illuminando la città con un’esplosione dietro l’altra. La guerra è cambiata. I kalashnikov e i carri armati servono solo marginalmente. Dopo la rivoluzione dell’aviazione, i droni hanno cambiato completamente le strategie, imponendosi come attore imprevedibile. La città e deserta, tutti si rifugiano sotto le case, nei bunker in stile ancora sovietico oppure negli scantinati degli hotel o delle chiese. Le sirene suonano. Nessuna luce è accesa, le strade sono buie. Le tende delle case sono chiuse.

 

All’hotel Europa, pieno zeppo di giornalisti, l’atmosfera è surreale. Tutti vanno in giro con il giubbotto antiproiettile, che comincio a detestare per quanto scomodo e pesante. Le autorità obbligano tutti i giornalisti a indossarlo ogni volta che escono da un edificio. Ma non mi sembra molto sensato. Quando suonano le sirene, tutti si fiondano di sotto nel seminterrato, dove molti rifugiati non si muovono tutto il giorno. Alcuni accendono le fotocamere per filmare. Io rimando a registrare i suoi, ma è rischioso. Di notte, dormiamo con i letti lontani dalle finestre. Il rischio di un’esplosione sono troppo alti e i frammenti dei vetri ci ucciderebbero. Emanuele mette il letto in bagno, io di fronte a lui dietro un armadio. Spostiamo un divano per proteggere il corridoio. Alex invece è il più protetto. Ha un muro di fronte. Alcuni colleghi hanno messo i materassi in corridoio sentendosi più sicuri, dormendo di fronte all’ascensore. Le prime notti siamo svegliati da bombardamenti costanti. Ma il mio sonno è troppo forte, non ne sento nemmeno la metà. Devo recuperare bene le energie.

 

Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, come la popolazione locale chiama la regione azera del Nagorno Karabakh, è sotto attacco. Non lontano, al fronte, i rumori di cannonate sono senza tregua. È la che si combatte la vera guerra. Ma se tutti i giornalisti si lamentano che della poca libertà d’espressione degli azeri, dando notizie false e controllando l’informazione, gli armeni non sono molto meglio onestamente. Difatti, non abbiamo moltissimo spazio di azione e non sappiamo se le informazioni ricevute siano vere o meno. Al fronte non ci fanno andare. Non possiamo fotografare soldati. E che guerra è una guerra dove non possiamo fotografare i protagonisti?  

Quando si parla di censura si pensa sempre a qualcuno che non vuole mostrarti le cose perché sta facendo qualcosa di male. In Nagorno-Karabakh invece, succede il contrario. I militari hanno paura di consegnare le coordinate di veicoli, carri armati e cannoni al nemico. L’altro giorno, attraversando la seconda linea nella cittadina di Martakert, a soli 2 chilometri dalla linea di contatto, ho visto un pezzo d’artiglieria e carri armati in bella vista. Ma i droni azeri non li vedono? Devono aspettare le foto di noi giornalisti? Non siamo più negli anni ’90, anche se le armi usate dalle forze armate della repubblica dell’Artsakh sembrano di quegli anni. I soldati sono male armati, poveri. Sono molto motivati sì, perché, come dice Karen, “non c’è altro posto per noi. L’unica popolazione che può salvare questa terra siamo noi. Siamo questo. Se non ci sarà questo territorio non esisteremo noi”. Si scontrano contro un nemico potente, all’avanguardia, anch’esso galvanizzato e pronto a riconquistare le terre che, secondo il diritto internazionale, appartiene a loro. Nessun compromesso. Ma gli azeri sfruttano l’aiuto della Turchia, che invia armi e, secondo molte fonti, anche miliziani siriani. Negli anni ’90 erano i mujahidin afghani di Gulbuddin Hekmatyar ad essere in prima linea. Oggi ci sono le milizie estremiste siriane.

 

Oggi gli azeri sono avanzati, rompendo le linee. Da qualche giorno sono penetrati da nord e da sud. Continuano ad avanzare circondando la linea di contatto, anche se tutti in Armenia smentiscono. Le agenzie sia dell’una che dell’altra parte, oltre che quella turca, fanno pura propaganda, raccontando cose completamente differenti. La verità è che solo un cessate il fuoco oppure un riconoscimento della repubblica dell’Artsakh, potrebbe salvare la popolazione che vive in questi territori da ormai moltissimi anni. Non vedo, personalmente, altra via d’uscita. Se gli azeri sono davvero determinati ad andare fino in fondo, non avranno tutti i torti e riusciranno a riportare il Nagorno Karabakh sotto la loro egida nuovamente. “Un soldato oggi mi ha confermato che gli azeri sono entrati ad Hadrut” mi dice il mio collega Emanuele dopo una visita al fronte. Solitamente non dovrebbero parlare, ma almeno abbiamo notizie dirette. Io non ero presente. Sono dovuto rimanere in albergo per lavorare a tutto il materiale che ho raccolto nei giorni scorsi. È un lavorone riascoltare interviste, ritoccare le foto, riascoltare le tracce audio di ore.

 

Con Emanuele e Alex, un altro collega, passiamo del tempo a casa di Karen. È un soldato. Anzi forse ufficiale, sebbene non voglia svelarlo. Secondo me è un alto rango. Ci ospita nel suo rifugio sotto la palazzina sovietica dove abita, nel centro di Stepanakert. La sua famiglia ci offre cibo, vodka (forse troppa) a volontà. Una sera portiamo noi una bottiglia, trovata nell’unico negozio ancora rifornito della città. Mi porta fuori dal rifugio e apre il suo garage. Mi mostra come coltiva la marijuana, creando l’ambiente adatto in armadi nascosti. Incredibile. Ma mi avverte: “Le donne non lo devono sapere, non lo vedono di buon occhio”. Prepara una canna, me la porge. La fumiamo insieme sul ciglio della strada. Quando arriva sua mamma, sgridandomi perché ho dimenticato di bere il caffè che ha preparato, Karen butta via la sigaretta frettolosamente. Mi ricorda mia madre quando mi scoprì a fumare per la prima volta. Fa ridere perché Karen è un pezzo grosso dell’esercito, così come il generale Viktor, suo padre, ormai in pensione. Sua mamma sorride, non parla inglese. La chiamo “Mama Jan”, in segno di rispetto. Molte parole derivano dal persiano in armeno e quindi qualche volta riesco a capire almeno un vocabolo. Tutti sorridono quando lo dico. Ormai siamo famiglia. Le persone sono molto ospitali. “Le donne come mia madre sono le vere eroine di questa guerra. Sono loro che fanno gli sforzi maggiori per tenere in piedi il paese mentre gli uomini sono al fronte” commenta Karen, offrendomi del formaggio, dei pomodori e chiaramente della vodka. Cucina molto bene.

 

Solo Karen riesce a comunicare in inglese. Quando chiedo troppe informazioni sensibili mi dice sorridendo: “Filippo, non farmi queste domande”. Ormai ridiamo. Non vuole che la sua famiglia sia fotografata. Karen è soprannominato “Gattuso”. Ci assomiglia. Ha 38 anni ma ne dimostra 50. Forse mente. Un ragazzo che è presente una sera, completamente ubriaco, conosce Filippo Inzaghi. “Totti” dice, portandosi la mano alla bocca e baciandola in segno di rispetto e ammirazione. “Roberto Baagio” continua ripetendo il gesto. Poi mi permetto di fare un commento: “E Filippo Inzaghi?”. “Ah, Filippo Inzaghi simulanta”. Scoppiamo a ridere. Filippo Inzaghi è conosciuto anche nel Nagorno Karabakh per aver simulato molto durante la sua grande carriera. E visto che prendo le sue difese, il ragazzo mi comincia a chiamare “Inzaghi”. “Lavora al fronte portando merci avanti e indietro. È traumatizzato perché i droni potrebbero ucciderlo da un momento all’altro”.

Il rifugio è molto spartano. Non c’è un pavimento. Solo terra battuta e sassosa. Su un tavolo sono poste le stoviglie e un piccolo fornello a gas usato per cucinare. Le riserve sono poste vicino ai piatti e le riserve di acqua sono grandi taniche poste vicino al piccolo televisore in cattive condizioni, che hanno installato per tenersi informati circa la guerra. Dietro, i letti. Sono tutti stipati in uno stanzino. La gente dorme tutto il giorno, cercando di non disperarsi. Bisogna ammazzare il tempo. E non ci si può allontanare perché, se le sirene suonano, bisogna subito tornare al riparo. Il problema dei droni, è che non fanno nessun rumore.

 

Oltre alla casa di Karen, che mostra come le persone stiano vivendo questo momento di grande angoscia, le storie per la città sono molto tristi. La città è fantasma, tutto è chiuso. Il cibo c’è ma non in grandi quantità. Elettricità ce n’è abbastanza per ora. Mancano autisti per spostarsi perché tutti gli uomini sono al fronte. La mobilitazione è totale. Chi non ha voluto combattere, è andato in Armenia con la famiglia. Molti hanno fatto così. Sono fuggiti ala leva. Atri invece, cercano di fare i furbi, come il proprietario dell’hotel in cui dormiamo. Karen racconta che siccome “bisogna pesare almeno 48 chili per essere ammessi nell’esercito, nelle guerre precedenti lui non mangiava per settimane. Così non ha mai combattuto”.

 

Il Nagorno-Karabakh è tecnicamente un territorio appartenetene all’Azerbaijan, secondo il diritto internazionale. Tuttavia, essendo popolato da armeni, negli anni ’90, con il crollo dell’URSS, si è creato un conflitto irreparabile. La popolazione locale ha cercato di ottenere l’indipendenza, sostenuti dal vicino armeno, scatenando una crisi che ancora oggi non si è risolta. Nella regione, molti armeni hanno investito costruendo e portando progetti di sviluppo in una regione molto povera. Non so se si possa parlare di colonizzazione, ma sicuramente hanno cercato di creare autorità locali, ministeri e un esercito in un territorio conteso. Durante la guerra fra il 1988 e il 1994, molti civili hanno perso la vita. Ci sono stati episodi di pulizia etnica da entrambe le parti e, nei territori controllati dagli armeni, molti azeri sono stati cacciati dalle loro case.400 mila sfollati armeni e 800 mila azeri sono dovuti fuggire. Le forze armene, approfittando della situazione, hanno preso il controllo del 9% del territorio azero. Il 14%, se si calcola anche Il Nagorno-Karabakh. È un conflitto molto delicato, dove ognuno ha la sua propria tesi. Chi saprà mai chi davvero ha ragione.

 

Oggi senza l’appoggio dell’Armenia, probabilmente il Nagorno Karabakh non avrebbe la forza di sopravvivere. Negli anni ’90, si costruivano ogni genere di armi per combattere. Coltelli creati dal legni oppure, come ricorda un giovane “usavano la farina per simulare un attacco chimico” mi dicono dei ragazzi ridendo. “Noi armeni siamo furbi. Quando gli azeri vedevano la polvere se la davano a gambe e così si conquistava la zona”. Strumenti rudimentali. Un museo ricorda ancora la crudeltà e allo stesso tempo ingegnosità di quella guerra. Così come un cimitero militare a Stepanakert, dove sono seppelliti tutti i soldati che hanno perso la vita durante i numerosi conflitti e dove oggi nuove fosse sono già state scavate, pronte ad accogliere ancora qualche giovane anima uccisa al fronte. La gente già sa che molti dovranno ancora morire. E sono già morti più di 450 soldati solo da parte armena.

 

La guerra degli anni 90’ è finita con un cessate il fuoco, ma non ha mai cancellato le tensioni. Negli anni molti soldati sono morti durante molteplici schermaglie. Nel 2016 un conflitto di alcuni giorni si è riacceso, ma quest’anno gli scontri registrati sono i più cruenti dagli degli ultimi 30 anni. Baku sembra veramente intenzionata ad andare fino in fondo, appoggiata dalla Turchia.

Dopo 3 giorni a Stepanakert troviamo finalmente una macchina disposta a portarci in giro. Vadim, l’autista, si offre disponibile per guadagnare qualche soldo. “Sono tornato per due settimane dal fronte. Riposo. Sono sulla prima linea” – racconta- “Quando i soldati azeri ci attaccano, sono drogati. Sembra di sparare a degli zombie. Non muoiono mai fino a che non gli spariamo in testa. Prendono anabolizzanti e droghe, così che il cuore pompi molto più sangue”. Dicono che gli azeri e i turchi abbiano ingaggiato milizie siriane per combattere. Tuttavia, non c’è certezza. Troppa propaganda.

Questo rimane un conflitto dimenticato. Ma mi fa strano pensare che tutte queste persone che incontro per strada, proprietari di hotel, ristoranti, negozio, nate e cresciute qui, possano perdere tutto in qualche settimana. Del resto, vedono questa terra come la propria casa, e forse dovranno andarsene altrove.

 

Stasera sono uscito a cena. Non ci sono ristoranti aperti. Molti giornalisti, per fortuna se ne sono andati. Meno caos. Ma voglio andare all’hotel Armenia, il più bello della città. Dicono ci sia un ristorante buono. Sono stufo di mangiare pane, riso e un po’ di farro con qualche pomodoro. Devo dire che non ho molta fame. Ma è guerra, e siamo fortunati ad avere del cibo. Per andare all’hotel devo mettermi il giubbotto antiproiettile, visto che il rischio che i droni bombardino è sempre alto. Tutta la giornata sono rimasto in hotel a lavorare sul materiale raccolto. Emanuele e Alex sono usciti, avvicinandosi al fronte. Dicono che un drone ha volato sopra di loro. Non si sa mai, è questione di un attimo. Decido di non metterlo. Usciamo con Emanuele e ci avviamo. Altri giornalisti sono là a bere qualcosa. Scambiamo quattro chiacchiere, ridiamo mangiamo qualche patata, una zuppa di barbabietole e un po’ di carne sorseggiando un bicchiere di vino rosso armeno. Buono. In lontananza il rumore dei bombardamenti. La guerra non si ferma.  Ma come detto, a nessuno importa di questa guerra anche se civili, soldati, da entrambi i lati, cadono ogni giorno nel silenzio più totale. Un massacro che potrebbe essere evitato.