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Kelbajar - Il mercato delle pietre

 

Andrea e io ci svegliammo la mattina tramortiti. Sembravamo due zombie. Ricordo che, da quanto eravamo ubriachi, ci risvegliammo insieme sotto lo stesso copriletto. L’hotel, la mattina, era gelido. Era ottobre inoltrato. In Armenia, le temperature diventano molto rigide. Soprattutto a Sevan, la cittadina dove avevamo passato la notte. La sera mangiammo in un ristorante semi deserto pasteggiando a vodka bielorussa. Quando rientrammo in hotel, con la nostra Lada bianca, affittata a Yerevan, una tavolata di armeni ci invitò a bere ancora e fumare. Non ricordo cosa fosse, anche perché non potevo comunicare. Ma era una droga leggera e sicuramente molto forte, perché, mi bastarono due tiri, per farmi girare la testa molto fortemente. Non sono un fumatore di certo, ma una botta del genere non l’ho presa spesso nella mia vita. Andrea andò a coricarsi prima di me. Io rimasi ancora alla tavolata. Non riuscivo nemmeno a comunicare anche quando si è ubriachi si riesce in tutto. O almeno, si pensa di riuscire in tutto.

 

La mattina, dopo esserci svegliati, cercammo di mangiare qualcosa nel ristorante dell’hotel, vuoto e desolato. Dopodiché, prendemmo la nostra Lada, ancora con i postumi della sbornia e la testa pesante, per continuare il nostro viaggio. Erano le 11 del mattino. Non sapevamo dove andare. Decidemmo di dirigerci verso sud visto che provenivamo da nord. Partimmo qualche giorno prima da Yerevan e visitammo una cittadina del nord dell’Armenia, Vanazdor. Scendemmo fino al lago Sevan, un luogo molto bello. Sullo sfondo montagne brulle e sulla costa, monasteri secolari.

Ma dopo, tutto era un’incognita. Non sapevamo la prossima tappa ne conoscevamo le strade. Non avevamo cartine, né telefonini per sapere dove ci trovassimo. Non perché non esistessero. Ma piuttosto perché ci divertivamo quasi a viaggiare in questo modo.

 

La macchina proseguiva verso sud. Più avanzava, più non sapevamo verso quale luogo ci stessimo dirigendo. Ricordo che il tempo era brutto, nuvoloso. La strada era dritta, con dei pali elettrici al lato per chilometri. Era piena di buche e sterrata Non aiutava certo al nostro stato psicofisico.

 

Finalmente passammo un villaggio post-sovietico. Il primo vero villaggio da quando partimmo. Sembrava di essere in una steppa centroasiatica ricoperta da una coltre di nebbia che non permetteva di farsi un’idea ben precisa del territorio circostante. Ricordo che era molto triste. Ma a noi piaceva spostarci in queste condizioni. Era un’avventura e ogni evento era buono per ridere. Non ci fermammo, pensando che avremmo trovato un altro posto per fermarci e riposarci. Ma dopo il villaggio, ci rendemmo presto conto di entrare in una zona remota e dimenticata. La strada proseguiva verso una valle. La nebbia diventava sempre più fitta. Ci trovammo di fianco a delle rotaie per il trasporto via treno. Poi, cominciò una strada piena di curve. Sembrava un passo alpino in inverno. Continuavamo a vedere sbucare dalla nebbia dei camion, scoprendo presto che si trattava di una regione mineraria dove si estraeva l’oro. Il che spiegava anche i binari del treno in mezzo al nulla.

 

Ma continuavamo a non capire dove fossimo. Finalmente, mentre la macchina saliva il passo montagnoso, con la strada sterrata e bagnata, capimmo che stavamo andando da qualche parte di sconosciuto. Non so perché decidemmo di andare avanti. Forse perché, a onor di logica, una strada doveva pur portare in un qualche luogo preciso. Perciò, raggiunto l’apice del passo, continuammo, scendendo da una ancora più strada sconnessa. Era come percorrere il San Gottardo con le condizioni stradali del diciannovesimo secolo. Mancavano, per fortuna, solo i banditi. Il fango della terra rossa argillosa, continuava a coprire sempre di più il parabrezza. E i tergicristalli della Lada non funzionavano bene. Anche se il riscaldamento era il massimo della vita, così come l’ammortizzamento. Quando la vista era ormai critica e Andrea alla guida, non poteva più vedere nulla, tirando fuori la testa dal finestrino per cercare di non cadere nel dirupo, ci accorgemmo di non avere niente, nemmeno dell’acqua, per pulire il vetro. Nel bagagliaio c’era solamente una bottglia di vodka che comprai qualche giorno prima al supermercato. Faceva talmente schifo che non sarebbe comunque andata sprecata sul vetro. Ci fermammo in mezzo alla strada, prendendo delle foglie dall’erba circostante per pulire il vetro. Arrivati a fondo valle, la strada era ancora peggiore. Andrea, disse che una ruota era a terra. Ci fermammo di nuovo nel primo punto dove incontrammo una casa. Il luogo era disabitato. Di fianco scorreva un fiume. Almeno, sentivamo che scorreva un fiume perché non vedevamo nulla. Di fronte, un posto di polizia. Ma non capivamo esattamente dove fossimo. Probabilmente ci trovavamo nel Nagorno Karabakh. Era solamente una supposizione però. Per entrambi, era una regione sconosciuta, nebbiosa. Non sapevamo molto su che zona fosse.

 

Mentre cambiavamo la ruota, smontando e rimontando quella di scorta, una macchina si fermò. Scesero degli ufficiali con le divise militari chiedendoci i documenti in russo. Dopodiché, senza dire nulla, proseguirono. Nemmeno ci aiutarono a sistemare l’auto. Chiedemmo a un abitante se fosse possibile almeno lavarci le mani. Accettò di buon grado. Proseguimmo il viaggio. Le buche si facevano sempre più insistenti e grandi, come quelle delle strade africane. Non avevamo molta scelta se non continuare. Ma non sapevamo quanti chilometri mancassero fino alla prossima città. Infine, dopo 5 ore, trovammo un negozietto dove comprare un po’ di pane e dell’acqua. Per non commettere lo stesso errore di prima, ne comprammo a quintali. Dopo altre ore di sterrato infinito, finalmente decifrai un cartello grazie alla guida turistica che aveva le lettere armene, che per arrivate a Stepanakert bisognava andare dritti. Era la conferma che fossimo in Nagorno Karabakh. A Stepanakert ci arrivammo la sera. Il cielo, nel frattempo si era aperto. Entrammo nella cittadina stanchi, affamati e ancora in “hangover” come si dice in inglese. Con i fumi dell’alcool. Arrivare a Stepanakert, vedere l’asfalto e il palazzo del governo fu un miraggio. C’era un nonché di poetico. Avevano anche un hotel nuovo di zecca chiamato “Hotel Armenia”, dove pernottammo. Era molto carino. La città era piena di ristoranti e viveva di più che certe cittadine armene desolate e abbandonate da tutti.

 

Fu quel 2011 che sentì per la prima volta la parola Kelbajar. Chiedemmo insistentemente a tutti da dove fossimo arrivati. Non avevamo la minima idea di che strada avessimo percorso. Ma le opzioni erano due: dalla strada asfaltata non eravamo passati, perciò doveva essere quella del nord, che attraversava proprio la valle del Kelbajar, che in armeno significa “mercato delle pietre”. Ridemmo molto di quella storia. Diventò per noi due un mito. Ce la raccontiamo sempre quando ci vediamo. Fu un viaggio molto divertente. Ma  mai e poi mai avrei pensato di ritornare in Kelbajar. Difatti, per uscire dal Nagorno Karabakh prendemmo l’altra strada, quella asfaltata e principale che teoricamente tutti usano.

 

Tuttavia, con la guerra cominciata il 27 di settembre e il cessate il fuoco del 9 novembre, le cose per il Nagorno Karabakh sono cambiate. Soprattutto in Kelbajar. Quando ci hanno evacuati il 7 settembre da Stepanakert, l’unica via percorribile era quella attraverso il Kelbajar. Ci passammo di notte, ma mi resi che avevano asfalto tutta la strada. Ero sorpreso. Ma poi, due giorni dopo, abbiamo tutti scoperto che il Kelbajar sarebbe stato restituito all’Azerbaijan il 15 novembre, ovvero ieri (anche se il governo azero ha dato 10 giorni in più all’Armenia per evacuare tutto). Un accordo che ha più il sapore di capitolazione per gli armeni anche se loro odiano dirlo.

 

Ma le cose sono venute a galla in fretta. Se gli armeni dicono che il Kelbajar è un territorio storicamente armeno, difatti, prima della prima guerra fra le due parti (1991-1994), questa regione era abitata da migliaia di azeri che dovettero fuggire in fretta e furia. Gli armeni la ripopolarono con coloni veri e propri. Ovvero, incentivando persone molto povere e analfabete, ad andarci a vivere in cambio di elettricità gratuita e materiale per costruire la casa. Le fondamenta delle case azere, bruciate e distrutte furono usate per ricostruire case, anche se ancora oggi, molti ruderi di case abbandonate 30 anni fa sono ancora presenti. Il rancore dei fuggiaschi, sicuramente non si è placato in questi anni e molte foto azere mostrano le donne che possiedono ancora le chiavi di casa propria, pronte per tornare. A me questo, ricorda molto un’altra zona del mondo che non menzionerò per non attirarmi insulti impertinenti. Ma tutti abbiamo capito a quale capitolo storico (contemporaneo e attuale) io mi riferisca.

 

Le persone, in meno di una settimana, hanno distrutto le proprie case, portando via tutto il possibile e bruciandole. Una scena terrificante. Terribile. Assistere gente mentre brucia tutta la sua vita, è straziante. Soprattutto dover fotografare la disperazione, le lacrime. Usare l’obiettivo per testimoniare non è sempre facile. Le persone erano distrutte. Era come assistere alla fine di un’epoca. Gli abitanti armeni della regione, costretti a distruggere tutta la loro vita in un battibaleno. La storia si, però, come detto prima, si ripete al contrario. Come dopo il 1994 con gli azeri, oggi invece sono gli armeni. Triste ma vero.

 

E così venerdì sono ritornato in Kelbajar da Yerevan per assistere a questo nuovo esodo massivo di persone. Non me lo sarei mai aspettato. Con Karlos, un giornalista spagnolo, siamo entrati nelle case della gente per parlare con loro appena prima che partissero. Molti erano sconvolti, altri arrabbiati. Era il caos generale con persone che rubavano gli oggetti lasciati dagli esuli. Marut, un mio ex-fixer ma ormai amico, è venuto con noi. Ha chiesto di poter vedere la regione ancora una volta nella sua vita. È un periodo molto difficile per lui. Ha perso tutto in meno di una settimana. Conosceva una persona nella regione, un suo caro amico, Alex. Siamo andati a vedere la sua casa. Era bruciata completamente. Era molto toccante vedere come Marut ha reagito, andandosene via molto velocemente. Gente come lui, nati e cresciuti in Nagorno Karabakh dovranno rifarsi una vita.

 

Marut è cresciuto a Stepanakert. Ma non so se ci tornerà. Da Shushi, gli azeri metteranno sicuramente una bandiera per ricordare a tutta la popolazione armena che sono lì e li tengono in scacco. Sta aspettando che il governo gli dia un posto dove stare.  Non lavora e non ha nulla. Lo abbiamo aiutato con qualche soldino per vivere qualche settimana. Ma dovrà trovare soluzioni alternative. La guerra è finita. I giornalisti partono. Anche io sono in partenza. Torno a Istanbul. Sono stanco ma già leggo di altri conflitti. Il mondo sta impazzendo.

 

Mentre passavamo di casa in casa, abbiamo fatto un giro al monastero armeno di Dadivank. Un monumento che passerà anch’esso in mano azera il 25 novembre. Un fatto che fa discutere. Molti sono quelli che si rifiutano di consegnarlo per paura che gli azeri lo dissacrino e lo distruggano. Perciò, gruppi di esperti hanno tolto i cippi funerari, le icone e hanno portato via tutto ciò che è di valore storico. Tutto questo di fronte a centinaia di turisti armeni venuti a visitare il monastero per l’ultima volta nella loro vita e piangendo guardando un pezzo della loro storia scomparire.

 

Dicono che ci saranno i russi a controllare la vallate di Dadivank. Da un lato una buona notizia per gli armeni. L’accordo fra Armenia e Azerbaijan, firmato a Mosca, prevede infatti che una forza di peacekeepers russi entreranno in Nagorno Karabakh per mantenere la pace, appostandosi in tutta la regione. Quando li ho visti entrare in Kelbajar sono rimasto impressionato dalla loro compostezza e professionalità, dopo un mese a guardare soldati armeni con la sigaretta in bocca e la bottiglia di vodka in mano.

 

Questo breve viaggio in Kelbajar mi ha fatto ritornare in mente molti ricordi. Ho ritrovato i luoghi dove io e Andrea bucammo la gomma e la riparammo. Ricordavo il posto di polizia e la casa dove ci lavammo le mani molto vagamente. La cosa brutta è stata però rivedere la regione in queste circostanze. Durante un esodo storico. I ricordi del passato, divertenti e spensierati, si mischiano alle immagini vissute venerdì scorso. Terribili, ciniche. Ma troppo reali. Chi mi dice che questa è la guerra, non possiede nemmeno un briciolo di umanità.