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18. Ecco le bandiere bianche. Ecco la resistenza.

 

Scendo sul sentiero lasciandomi alle spalle le bandiere bianche. Di fronte a me, un mare di montagne sconfinate che lambiscono l’orizzonte, illuminate dalla luce del sole di tardo pomeriggio. In lontananza, un posto di avvistamento. L’eco trasporta il suono di uno sparo. Scendo il sentiero sassoso sulla cresta delle montagne, che mi ricorda le mie.

Di fronte a me, una fila di mujaheddin talebani, dietro, due che chiudono la linea, armati fino ai denti con lanciarazzi e mitragliatori. Accendo la mia telecamera per filmarne uno che deve porsi il turbante nero attorno alla testa. Ridono, forse non capiscono perché per me sia così interessante filmare quella scena. Ma i colori sono spettacolari.

Sullo sfondo, il posto di comando del Mullah Manan Niazi è dorato dal sole. Si scorgono ancora in lontananza le sue bandiere bianche, le bandiere talebane. Una serie di casupole di fango essiccato, poste in cima a una salita impervia e di difficile accesso. Un posto perfetto per controllare il territorio circostante e, soprattutto, per proteggersi.

I talebani trasportano armi pesanti sui sentieri, muovendosi agilmente. Sfido che hanno massacrato l’occupazione Nato. Sonno troppo veloci, conoscono il terreno come il palmo delle loro mani. Non appena sentiamo degli spari, saltano fuori dai 4x4, caricano il fucile, corrono sulle cime circostanti alla strada sterrata e sconnessa che percorriamo e si preparano a rispondere al fuoco. “Fire nako” grida S. ai ragazzi. Potrebbe essere pericoloso per il veicolo. Non sappiamo chi sia. Ma se fossero soldati dell’esercito afghano, risponderebbero colpendo prima i nostri veicoli. I combattenti scompaiono, invisibili. Impressionante. Che abilità. Un pezzo di strada, lo percorro nel vano del veicolo insieme ad alcuni di loro, per osservarli e fotografarli insieme a E. il mio collega, lui professionista della fotografia. Vedo che uno fuma. “In teoria, non sono autorizzati a fumare di fronte ai loro comandanti” dice S. È hashish? Tutti sorridono.

 

Ci feriamo di fronte a un altro veicolo, con una ruota bucata. Il veicolo con il quale siamo arrivati in questa valle sperduta della provincia di Herat, nel nord ovest dell’Afghanistan. I mujaheddin, giovani, sorridenti, calmi e molto gentili, tolgono la ruota bucata. Devo ammettere che in due mesi ho bucato tante di quelle ruote (riuscendo pure a salire su un taxi, in Mali, al quale si è staccato l’asse che regge le ruote, facendo cadere l’auto da un lato, ho dovuto cambiare taxi) che non mi sorprende. In particolare, su una strada difficile, impervia come poche. Usano il crick per togliere la ruota. Non c’è quella di ricambio e così la caricano su un 4x4 per portarla a riparare in città, nella zona controllata dal governo. Fa ridere, perché non appena si esce dalle città principali, è terra di nessuno e il governo non controlla più nulla. Per sorreggere il veicolo, pongono alcune pietre sotto.

 

Il nostro problema, ora che abbiamo passato le linee governative, è rientrare nel loro territorio. Abbiamo bisogno di un veicolo. Visto che il 4x4 nero con la ruota bucata è fuori uso, ci offrono un posto in due altre macchine. Poi, i talebani che ci hanno scortati, ci salutano con molto calore, abbracciandoci e ringraziandoci. “buona fortuna” dico loro. Uno di loro, per ringraziarmi, mi porge la sua scorta di hashish in segno di rispetto. Demonizzati da tutti nel mondo, i talebani sono persone che combattono per la libertà del loro paese da un’occupazione straniera mal tollerata da tutti, tranne che da una minima parte della popolazione, una piccola elite arricchita con i soldi occidentali, comprata e una serie di signori della guerra che ne sfruttano le risorse e le opportunità.

 

I Talebani, con il tempo, si sono trasformati in un movimento di resistenza. Hanno i loro punti di vista, molto vicini a una visione tradizionalista e conservatrice della religione islamica. Ma se fossero davvero demoni e assassini come i media e le istituzioni occidentali vogliono far credere, allora ci avrebbero uccisi durante la nostra visita.

 

Abbiamo organizzato questa visita al Mullah Manan Niazi per alcuni giorni. Lui, un dei primi talebani ad aggregarsi al gruppo condotto dal Mullah Omar negli anni ’90, è stato una figura di spicco dell’Emirato Islamico Talebano. Ma oggi si è separato dalla fazione del nuovo leader Mullah Haibatullah Akhunzada. La fazione principale che sta negoziando con gli americani e il governo afghano. La frizione è nata nel 2015, con la guerra di successione del Mullah Omar. Niazi non ha accettato e così, ha deciso di combattere non solo l’occupazione, ma anche i suoi vecchi compagni di armi. Nelle provincie di Herat, Farah, e Faryab, sono in molti i suoi seguaci.

 

Accetta di buon grado la nostra richiesta di incontrarlo. Per farlo però, la condizione è salire in cima alla montagna. Non c’è problema per me. Ma durante la marcia, con macchina fotografica per filmare e far foto, non è il massimo. Sono ancora relativamente in forma se calcolo che sono 2 mesi che non corro. E. si ferma ansimante. Corriamo entrambi come pazzi per stare davanti ai soldati e fotografarli. S. e Sh. stanno dietro, cercando di nascondersi e non entrare nelle foto. Poi Sh. Sale su un asino che lo trasporto fino all’ultimo pezzetto di sentiero, irto. Ritorno con la testa alla corsa in montagna per un attimo prima di rendermi conto che no, sono in mezzo a un territorio di guerra, con un gruppo armato che ha sottomesso tutti, ha sconfitto tutti. Il Mullah Manan non ha paura di ricordarlo: “siamo più forti di tutti. Anche degli italiani. Quante volte li ho fatti esplodere…”. Herat, è stata assegnata all’Italia come provincia durante la missione Nato. E il Mullah Manan, non si sbilancia dicendo se sono soldati coraggiosi, ha solo detto che sono come gli altri, più deboli di loro. “Abbiamo sconfitto tutti, pure loro”.

 

In cima alla montagna, le piccole casupole in fango sono uno spettacolo per gli occhi. Poste sopra, le bandiere bianche talebane sventolano fortemente. Il vento rinfresca le cime, anche se il sole rende la temperatura gradevole. Non ho preso giacche o felpe, solamente il mio Peran Tomban, il vestito tradizionale, e il Wasqat, il gillet, dove metto batterie, microfoni, schede e tutto ciò che mi serve. Ho il mio zainetto nero militaresco, ormai distrutto completamente, ricucito mille volte e che, imperterrito, resiste.

 

La vista è mozzafiato. Bellissima. Le montagne si perdono a vista d’occhio e ancora più impressionante è il raduno di talebani, di mujaheddin, che attorniano il Mullah Manan, intento in una predica in pashtu e dari, ricordando ai suoi soldati perché si combatte, contro chi si combatte e chi può essere considerato un vero musulmano, un vero talebano. Io e E. ne approfittiamo per scattare foto, filmare, osservare. Guardo i dettagli dei combattenti, alcuni mi salutano amichevolmente. Altri non si accorgono che sono straniero. Quando diciamo che siamo italiani, ho sempre un po’ paura, visto la presenza dell’esercito italiano a pochi chilometri di distanza.

 

A un certo punto, il Mullah smette di parlare e chiede di me. Sto discutendo con un mujhaid, vuole il mio numero di telefono. Gli dico che non ce l’ho. Mi guarda e tocca il telefonino nel taschino sul mio petto. Ridacchio, dicendogli “numr afghan nist, numr italiawi ast”, non è il numero afghano, è un numero italiano. E. mi chiama per l’intervista, ne approfitto per sfilarmi dalla situazione scomoda. Mi siedo di fronte al Mullah. Uomo carismatico, sorridente. Sulla settantina. Un fedelissimo del Mullah Omar al tempo dell’Emirato islamico. Lo guardo, mi guarda. Ci salutiamo. “Welcome” mi dice in inglese. Rispondo ringraziando. L’atmosfera è rilassata. Intorno a noi, una folla di soldati in silenzio. Solo il vento soffia facendo rumore. L’intervista dura circa 40 minuti, gli chiedo cosa ne pensi degli accordi di pace, della sua visione sull’essere talebano, sulla guerra attuale. Una discussione intensa, interessante. Da ore è seduto a gambe incrociate per terra, poggiato su alcune coperte piegate. Di fronte a lui un fucile italiano. Il suo fucile. Gli chiedo di portarmi con lui alla linea del fronte, accetta. Ma è chiaramente complicato per il resto del gruppo. Andare con loro alla linea significa essere da soli e scoperti anche se sono combattenti eccellenti.

 

Non mi rendo conto effettivamente di essere con uno dei personaggi più interessanti dell’Afghanistan contemporaneo. Un leader importante talebano, che ha conosciuto da molto vicino il Mullah Omar e che oggi tiene testa non solo all’esercito afghano e alle forze d’occupazione Nato, ma anche al gruppo di talebani guidato da Doha e alle orze iraniane, che ogni notte cercano di entrare nel territorio. Si una guerra invisibile che nessuno vede e sa, ma che effettivamente sarà il prossimo conflitto che proverà a distruggere le vite di migliaia di innocenti afghani.