11. In Centrafrica, pecunia non olet!
C’è chi nella vita ha il sogno di andare sulla luna, di diventare un campione di calcio, di vedere le meraviglie del mondo o di poter viaggiare in posti incantevoli immortalati in fotografie dalle mille e una notte stuzzicando la loro imMaginazione. C’è chi invece, come me, ha dei sogni nel cassetto un po’ differenti. Come ad esempio, fare un reportage in Repubblica Centrafricana, un paese dimenticato da dio, che i loro stessi abitanti descrivono come «Le pays qui n’a jamais existé», ovvero, il paese che non è mai esistito. D’altronde, già il nome ricorda una vera e propria invenzione, quasi casuale. È come se i coloni francesi si fossero detti, caspita, abbiamo nomi per tutti i territori ma questo pezzo di impero, rimane fuori da tutto. Come lo chiamiamo? Beh, essendo in mezzo a tutto, chiamiamolo semplicemente Centrafrica. Un territorio ricchissimo in risorse – guarda caso – incastonato fra Ciad, Camerun, Sudan e Congo. Nel mezzo di altri territori, non si poteva quindi trovare nome più appropriato.
Un paese vassallo della Francia, come tutte le sue ex-colonie per essere chiari, e che ha mantenuto relazioni molto strette con chi, solo 50 anni fa, lo controllava e sottometteva. E parte del problema risiede proprio nel controllo geopolitico oltre che nella grandissima ricchezza (oro e diamanti in abbondanza che scatenando la lotta fra i pescecani). Una guerra che si combatte con elementi di procura, come milizie senza scrupoli e politici corrotti fino al midollo sin da quando hanno visto la luce su questa terra, e che di fatto è uno scontro fra potenze: russi, francesi e ruandesi. Alt, che ci fanno i ruandesi anche qui? Paul Kagame, lo spietato dittatore ruandese, uomo dalle mille risorse e fantoccio degli Stati Uniti, ha un contingente pure qui dopo aver occupato parti del Congo Kinshasa e mandato truppe in Sudan del Sud? Incredibile. La RCA, com’è abbreviato il nome -stancante da pronunciare- del paese e che gli dà quasi un tocco di classe, è in balia di signori della guerra protetti e combattuti da paesi con interessi evidenti e che continuano a macchiare la terra rossa argillosa dell'affluente del Congo, l'Ubangi -il fiume che segna il confine politico con la Repubblica Democratica del Congo, sulla quale riva sorgge Bangui, la capitale- di sangue sotto diversi pretesti: la religione, la democrazia, la protezione della popolazione. Ma, poi, alla fine, è sempre quest’ultima che muore. Questi politici potrebbero essere più creativi. Ma, c’est l’Afrique!
Sono arrivato qui proprio perché, dopo alcuni anni di stallo e di una verosimile apparente calma, le cose hanno cominciato a degenerare nuovamente con le elezioni del dicembre 2020, che hanno visto vittorioso il presidente Archange Toudéra. Arcangelo è il suo nome, il protettore…degli interessi russi. Pericoloso, forse troppo per quelli dei coloni transalpini, i quali non possono permettersi lo smacco di perdere quello che ancora considerano – ma solo sottovoce- il proprio territorio d’oltremare. Con l’elezione del presidente Toudéra a metà gennaio (chiaramente i soliti brogli elettorali sono stati annunciati e gran parte della popolazione non ha potuto votare, il che mi ricorda molto il mio caro e amato Afghanistan, lo scherzo del secolo), un raggruppamento di gruppi ribelli -e qui il lettore dovrà perdonarmi il gioco di parole proprio perché paradossale- che si fa chiamare CPC ed è formato da gruppi che fino a qualche anno fa si scontravano a colpi di machete con la lama arrugginita e poco affilata (scatenando scene di violenza ai più inimmaginabili), hanno deciso di attaccare le forze Onu della Minusca (la missione dei caschi blu in Centrafrica, missione perlopiù corrotta ma che si schiera per la protezione del governo e della popolazione civile), le forze centrafricane, ruandesi e russe. La colazione governativa insomma. La CPC, controllata invece da alti ranghi fra i quali l’ex- presidente Bozizé, sembrerebbe invece sostenuta dai francesi. Chiaramente in silenzio. E si sono spinti fino a Bangui, la capitale di quello stato inesistente che ha più le parvenze di un grande villaggio dimenticato da tutti.
La faccio facile per i più ignoranti in materia. Le cose sono ben più complesse. Ma se 8 gruppi ribelli si mettono insieme per combattere un nemico comune, penetrando fino all’interno della capitale e controllando vasti territori inaccessibili di un paese perlopiù ricoperto da una fitta foresta tropicale, cosa si può pensare del futuro pacifico di questo limbo di terra? Pensiamo davvero che questi 8 gruppi comandanti da gangster si fermeranno dopo la presa di Bangui? Io non credo proprio. Troppi soldi, troppi interessi geopolitici. Il Centrafrica, crogiolo di discordie e miseria del mondo, è in balia di potenze che ne fanno quello che vogliono. Un vero paese inesistente. Un territorio neutro dove miliziani controllano più territorio che un governo che succhia al capezzolo del potere occidentale e russo e aspira solo a fare i propri interessi. Beh, storia ormai vecchia come la cicuta di Socrate.
Basta con la politica per ora. Qualche critica en passant. Sono atterrato stamane all’aeroporto di Bangui dopo un interminabile viaggio. Prima di prendere il volo da Ginevra, ho rotto il mio zaino ordinato direttamente dalla Cina. Non mi sorprendere. Era molto pesante, ma le giunture erano proprio cucite in maniera precaria. Nel treno, quindi, non sapevo davvero come fare. Ho ragionato un attimo su come ripararlo. Ho estratto quindi dal mio necessaire ago e filo, ma non era sufficiente per tenere il peso di tutta l’attrezzatura. Perciò ho tolto le stringhe delle mie scarpe da corsa. Le stringhe sono cose che si trovano ovunque nel mondo. Anche a Bangui. Le ricomprerò. Dopodiché, con l‘aiuto di un coltellino svizzero, ho bucato la bretella facendo passare il filo della stringa su entrambe le spalline. Per miracolo tengono ancora. Non male come idea. Lo terrò presente. Tuttavia, ora non ho le stringe delle scarpe e dovrò andare a comprarle. Non sarà un problema visto che non penso di poter correre in questa situazione disperata, dove alle 5.30 del pomeriggio c’è un coprifuoco e i ribelli assediano letteralmente la città.
Saint Clair, la mia guida in loco, mi è venuto a prendere consegnandomi una lettera da presentare all’immigrazione. Come mi aspettavo, volevano dei soldi per rilasciarmi il visto quando invece pensavo fosse tutto pronto e pagato. Non appena sono uscito dal velivolo, ho assaporato e sentito quell’odore di Africa che da troppo mancava. Due anni esatti, da quando tornavo dall’ultima missione in Sudan del Sud, paese confinante a questo e che lo accomuna per il caos perenne e la guerra civile. Anche se penso che in un certo senso le cose andassero meglio che qui. Ma è ancora presto per dirlo.
Erano anni che sognavo, appunto, di vistare questo paese martoriato e negletto. Al tempo, parlo di 6 anni fa ormai, quando lavoravo in Camerun, mi recai una volta nei campi rifugiati vicino al confine per intervistare le persone che fuggivano i massacri fra Seleka e Anti-Balaka (un capitolo differente del conflitto centrafricano che ha avuto il suo apice qualche anno fa). Erano i miei primi reportage sul campo. Lavoravo come praticante all’ambasciata svizzera ma regolarmente fuggivo dopo il lavoro o prendevo le mie vacanze per scrivere storie di vita e incontrare chi subiva gli effetti nefasti della guerra e di interessi politici. Seguendo da vicino le vicessitudini in Rca, mi ero ripromesso più venire qui. Ma poi, come si sa, la storia ha avuto un altro corso. Nella vita, non si può prevedere troppo.
Ed eccomi qui, infine. Un sogno che si avvera o una fossa di serpenti nella quale mi sono buttato coscientemente? Non lo so. Ho imparato ad ascoltare i miei istinti. Dopotutto, quante fosse di serpenti ho dovuto affrontare. Ma non si sa mai anche se non mi sorprende più nulla. L’Africa mi mancava troppo. La gente che cammina per le strade sconnesse e bucate, colorate di rosso argilloso e grigio ormai scolorito dell’asfalto che fanno un contrasto ineguagliabile con il beige rossastro delle case e il verde rigoglioso della natura circostante. I profumi terribili della spazzatura bruciata a bordo strada nel centro città ma anche le foglie di eucalipto che emanano un odore di pace. La calma delle cameriere che per servirti ci mettono cinque minuti solo per alzarsi dalla sedia e venire al tuo tavolo. I libanesi che tengono tutti i commerci di cibo, ristoranti e prodotti di prima necessità. Che spettacolo. Senza dimenticare la rete internet lenta come più non si può, il che mi obbligherà a distaccarmi dal telefonino (anche se ormai ci lavoro molto ed è parte indispensabile della mia attrezzatura). Ho affittato un piccolo locale da un francese, con acqua e elettricità, un letto con una zanzariera e una piccola cucina. Ciò che basta per vivere. Volevano farmi dormire in hotel, ma era troppo caro. Almeno ho un po’ d’acqua per farmi la doccia e elettricità per cucinare un piatto di pasta, bermi un caffè o caricare le batterie della mia macchina fotografica.
Non conosco ancora nulla di Bangui, ho fatto solo una piccola visita per comprare due cose che mi servivano. I prezzi, quasi europei, per un paese dove il salario medio è meno di un dollaro al giorno. Saint Clair sembra molto in gamba. Gli ho fatto però pressione: prendere rischi, ma tornare con un grande lavoro. Non ho scelta se voglio pubblicare. O sei il migliore o sei fregato. Non ci sono vie di mezzo. Provando a raccontare ciò che non viene detto. Vedremo nei prossimi giorni. La tensione in città è alta il coprifuoco, non un’idiozia come quella introdotta in Europa per far fronte alla “pandemia” di covid, è dovuto alla guerra civile. Qui, il covid sembra uno scherzo. Anzi, dicono che in marzo gli hanno cofinati nelle loro case e hanno liberato la popolazione quando i casi erano stavano toccando il loro apice. Ma chi conta poi i casi in un paese dove non ci sono strumenti? Che idiozia. E se chiudi in casa le persone che lavorano nell’informale, come mangeranno?
Passerò il tempo a leggere, a vedere documenti, a prepararmi per condurre il mio lavoro nel modo migliore possibile. Sono tornato. La voglia di scrivere, di raccontare, è di nuovo al massimo. La Rca mi ricorda bei momenti delle esperienze vissute in Africa. Sarà la prima tappa di un viaggio di un mese e mezzo. La batteria è al 100%. Dopo il Karabakh avevo bisogno di riposarmi un po’. Ma fremevo per tornare al lavoro, per ritornare ad ascoltare le storie e riportarle.
Comincia così un mio viaggio che mi porterà nei meandri di questo paese ai più sconosciuto. Per ora, oggi, mi godo la mia Castel, birra che mi ricorda il Camerun. Ora però, occhi sulla missione. Il materiale è pronto. Io lo sono. Al lavoro. Welcome to Africa!