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Un permesso e pochi soldi per non vedere la morte

Ricattato, Isah partecipa alla guerra in Siria con la brigata dei Fatemyoun contro lo Stato Islamico. Rifugiato afghano senza diritti, cede al ricatto delle autorità iraniane di ricevere soldi e…

Isah, 25, si asciuga le lacrime che scendono dagli occhi con un fazzoletto. Le sue guance sono bagnate. Piange. La sua voce è interrotta dal silenzio e continui singhiozzi. Porta le mani alla faccia per coprirla, non lasciando trasparire il rossore degli occhi ma non riuscuendo a celare il suo dolore. Sta raccontando il suo vissuto, il suo incubo come come membro di una milizia al fronte siriano.

Dal 2015, vive in una cameretta situata in un villaggio alpino quasi da cartolina, al bordo di un laghetto, non lontano dalla cittadina svizzera di Zugo. Regnano la pace e il silenzio. Due cose che forse, Isah, non aveva mai conosciuto nel suo passato. Ricevendo lo statuto di rifugiato nel paese ha potuto terminare l’apprendistato per diventare muratore. Una possibilità di ricominciare da capo e dimenticare gli anni bui del suo passato. 

Isah è cresciuto a Isfahan, in Iran, dove i suoi genitori si erano rifugiati, dopo l’arrivo dei talebani in Afghanistan. E come tutti gli afghani rifugiatisi in Iran, Isah ha vissuto nella discriminazione più totale per anni. Ai margini della società, illegali e trattati come cani o sfruttati. Come molti suoi coetanei, presto anche Isah ha dovuto provvedere alla sua famiglia. E per fare questo, non ha avuto altra scelta se non quella di partire per il fronte siriano, arruolandosi nella brigata dei Fatimyun, creata nel 2014 e addestrada dal Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica iraniani (Sepa- Pasdaran), ma formata da afghani sciiti (soprattutto di etnia Hazara, anche sei Isah non lo è). Una milizia formata da circa 20 o 30 mila uomini che ha combattuto per mesi lo Stato Islamico al fianco del regime siriano di Bashar Al-Asad fino al 2019, ma che ha origini ideologiche ben più longeve e di stampo religioso (vedi da sapere). Isah, ricattato con la sua stessa libertà, è stato costretto a vivere una delle cose più terribili al mondo: la guerra.

La brigata dei Fatemyoun, nata nei decenni scorsi, è stata formata nuovamente nel 2014 dal Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica iraniano, meglio conosciuto come Sepa-Pasdaran. Il loro dovere è quello di proteggere lo scrigno di Zeynab, la nipote del profeta Maometto e figlia del profeta Ali, oggi situato vicino a Damasco. 

Formata da afghani sciiti, soprattutto di etnia Hazara, ha avuto come suo obiettivo principale quello di combattere sui fronti yemeniti e siriani. In Siria hanno affiancato le truppe di Bashar Al-Asad e le forze iraniane nella lotta contro lo Stato Islamico. Si calcola che circa 20 o 30 persone siano state arruolate. Molte sono state reclutate in Iran, fra i milioni di rifugiati afghani che ancora vivono nel paese. Ma molti sono anche arrivati volontariamente dall'Afghanistan. L'Iran ha promesso, in cambio di alcuni mesi di servizio, uno stipendio e un permesso di soggiorno, che i rifguait afghani non riescono ad ottenere normalmente, rimanendo fortemente discriminati. 

“Un giorno, mentre guidavo la mia motoretta, la polizia mi ha fermato distruggendomi l’unica specie di permesso che possedevo. Mi hanno arrestato e accusato di aver insultato la guida suprema, l’Ayatollah Khamenei, un reato punibile con 3 anni di carcere. Era chiaramente falso. Sono restato in prigione per giorni fino a quando un uomo è arrivato e mi ha fatto una proposta: “Perché non vai in Siria ad aiutare le persone?” - non per combattere, diceva, ma se ci fossi andato, prometteva che il governo avrebbe pagato gli studi a mio fratello, e mi avrebbero emesso un nuovo permesso di soggiorno. Non ho avuto scelta. Ero l’unico a poter provvedere alla mia famiglia. O il fronte o la prigione. Mi hanno detto che il servizio sarebbe durato 2 mesi e mi avrebbero pagato l’equivalente di 200 euro al mese (2-3- mio tuman iraniani). Ho accettato e mi hanno liberato.”

È così che il suo incubo è cominciato. A soli 19 anni si è arruolato diventando lui stesso un Fatimiyun. Con l’inizio del conflitto siriano in Medio oriente e la presa di posizione da parte di Tehran difatti, gli iraniani hanno capito come sfruttare a loro vantaggio le orde di rifugiati afghani nel loro paese. Il governo ha così millantato a molti afghani, senza documenti e allo stremo, di servire nella brigata in cambio un permesso di soggiorno valido e qualche soldo. Per gente che viveva nella precarietà e nascondendosi dalle autorità, la speranza di una vita migliore ma anche una fonte di guadagno e la regolarizzazione delle loro famiglie non aveva prezzo. “In Iran, noi rifugiati afghani eravamo insultati, non potevano andare a scuola. Nessuno avevamo il diritto di lamentarci, nemmeno con la polizia. Ci mettevano in prigione o ci deportavano in Afghanistan, un paese che noi, in maggioranza, nemmeno conoscevamo perché non ci eravamo mai stati” racconta Isah guardando sempre il suolo della sua camera.

Ed è proprio per queste ragioni che anche lui è stato tratto in inganno come molti altri, cedendo alle lusinghe del governo iraniano nella vana speranza di poter regolarizzare il loro statuto. E se le promesse si sono quasi sempre rivelate false, l’incorporamento è stato spesso frutto di ricatto o obbligo, più che un atto volontario.

“In Iran, noi rifugiati afghani eravamo insultati, non potevano andare a scuola. Nessuno avevamo il diritto di lamentarci, nemmeno con la polizia. Ci mettevano in prigione o ci deportavano in Afghanistan, un paese che noi, in maggioranza, nemmeno conoscevamo perché non ci eravamo mai stati”

Da quando Isah ha accettato di arruolarsi, non sono passati molti giorni prima che si ritrovasse in un campo di addestramento nel mezzo del deserto. Non sapeva dove si trovasse e non aveva nessun tipo di contatto con l’esterno. “Sono rimasto nel centro solo 12 giorni. C’erano altre centinaia di afghani. I primi giorni ci hanno dato dei vestiti, ci hanno indottrinati. I mullah predicavano, facendoci il lavaggio del cervello su quanto fossimo eroici. Ma dovevamo anche imparare a diventare dei veri soldati. La maggior parte di noi non sapeva nemmeno impugnare un fucile. Molti non si addestravano nemmeno. Passavano il loro tempo a fumare hashish. Era un’ottima medicina per dimenticare la nostra condizione disastrosa”.

Dopo 12 giorni, durante i quali Isah sostiene di aver sparato al massimo 20 colpi di kalashnikov, il suo gruppo è stato mandato in Siria. Fine dell’addestramento. Inizio della guerra. “Siamo sbarcati con un aereo vicino a Damasco – continua il racconto sempre più in tensione - Dopo 4 giorni, volevano già mandarci al fronte. Faticavo a credere che ci avessero mentito spudoratamente”. Isah si è quindi rifiutato di partire. È stato spostato nell’artiglieria: “Sparavamo solo a salve perché non eravamo nemmeno capaci. Spaventavamo solo il nemico”.

Ma è anche così che si è salvato da una morte quasi certa: “Il fronte in cui eravamo si trovava vicino alla frontiera con l’Irak. Dormivamo in una scuola abbandonata. Un giorno, un gruppo d’assalto partito al fronte ha subito un’imboscata dai miliziani di Daesh. È stato attorniato. Dei 450 uomini che formavano il gruppo, mal preparati, solo 30 sono sopravvissuti ». Di loro, si ricorda soprattutto ragazzini di appena 14 anni, uccisi senza nemmeno saper sparare. È qui che le sue lacrime si fanno più forti ancora. Nella sua memoria, ha sicuramente impresse le loro facce. Amici. Bambini obbligati a diventare adulti troppo presto. 

Ciò nonostante, il suo incubo non doveva finire in quel momento. Anche lui ha dovuto provare la paura di fronte a morte certa: “Mi hanno ordinato di prendere un gruppo di 4 ragazzi e fare la guardia in cima a un promontorio a qualche chilometro di distanza dalla scuola. Essendo il più grande, mi hanno appuntato come comandante. Eravamo molto spaventati. Sapevamo che saremmo morti presto. Insieme a noi sulla collina, c’erano altri 20 altri soldati. Per qualche giorno, era tutto tranquillo. Era una tipica collina desertica e rocciosa. Dormivamo nelle nostre tende fino a che, una notte, mi sono svegliato con proiettili che volavano e rumori di spari. I miliziani dell’Isis ci stavano attaccando. I miei uomini non erano in grado di combattere, così avevo ordinato loro di nascondersi. Ho sparato qualche colpo di mitragliatore, accorgendomi presto di non riuscire più a muovere la mano. Ero sotto tiro. Così sono scappato, scivolando da un dirupo realizzando di essere stato colpito alla mano, allo stomaco e alla gamba. Ho trovato i miei 4 soldati, ancora vivi. Ma gli altri erano tutti morti”.

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"Un giorno, un gruppo d’assalto partito al fronte ha subito un’imboscata dai miliziani di Daesh. È stato attorniato. Dei 450 uomini che formavano il gruppo, mal preparati, solo 30 sono sopravvissuti »

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Di loro, si ricorda soprattutto ragazzini di appena 14 anni, uccisi senza nemmeno saper sparare.

Il pensiero gli fa ancora rivivere un trauma difficile da superare. Questi ricordi lo fanno singhiozzare. Deve fermarsi un attimo prima di continuare a parlare. 
Erano già 4 mesi che Isah era in Siria. E non ne poteva più: “Ero in quel posto già da molto più tempo di quel che mi avevano comunicato. Ho fatto pressione per rientrare in Iran”. A suo rischio e pericolo, è stato quindi “rimpatriato”. Ma avendo rotto il contratto con il governo iraniano, ha rischiato di essere imprigionato nuovamente. Questa volta, senza via d’uscita. I soldi sonoarriv ati, ma solo per due mesi, rimanendo sempre nella stessa condizione di illegalità, ma questa volta anche ricercato e rischiando di essere deportato in Afghanistan. Lo schock della famiglia, nel vederlo rientrare, è stato immenso: “Pensavano fossi morto” – ricorda Isah mentre ripete le parole della madre – “Non avevano avuto mie notizie da mesi. Ma ora, l’unico modo di salvare loro la pelle, era di sparire per sempre. Dovevo andarmene. Non avevo molta scelta. Dicevano che i Fatimyiun potevano finire in prigione in Afghanistan, quindi non avevo altra soluzione se non tentare la via dell’Europa”.

Isah si è nascosto in camera sua per alcune settimane senza uscire e dire nulla. Fumava solo hashish, per dimenticare. Poi ha preso coraggio e ha deciso di partire e fuggire in Turchia, raggiungendo le coste greche con i gommoni e camminando fino in Austria. “La mia famiglia, quando le chiedono spiegazioni di dove io sia, dice che sono tornato in Afghanistan. Altrimenti, se sapessero che sono in Europa, li ucciderebbero. Ci parlo ancora oggi di nascosto. Ma con il telefono di un amico, per non essere rintracciato”. 

Alza la testa per concludere il suo racconto: “Prima di arrivare in Svizzera, non sapevo cosa significasse essere umano. Qui ho scoperto la libertà e la vita”.