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Se tutto va a rotoli, a chi importa?

 

Al piano di sotto una donna piange. Talmente forte che dal piano terra le grida di disperazione arrivano fino alla mia stanza del terzo piano. La situazione, a Stepanakert, nelle ultime settimane è cambiata ancora. La gente si fa sempre più rarefatta, la città è militarizzata, i rombi dei cannoni, dei missili e dell’aviazione azera sono sempre più vicini. Sul volto della gente si può benissimo leggere la disperazione, la paura, la sensazione che tutto sembra essere perduto. È come quando, in un gioco di società, si sa già di aver perso ma si aspetta la fine della partita. Solo che qui, si gioca con la vita delle persone. L’espressione sulle facce della gente, da ormai una decina di giorni, è cambiata radicalmente. L’idea di continuare a dire “non sta succedendo nulla” sembra essere esaurita e sta cominciando a prevalere un certo spirito di arresa, prendendo atto di quel che succede.

Sono giorni difficili per tutti. Ieri notte, gli azeri hanno tentato di conquistare Shushi, la cittadina simbolo della riconquista di Baku, distante solo 10 chilometri da qui. Oggi hanno tagliato la strada. Ora siamo davvero sotto assedio. Ieri notte i colpi d’artiglieria sono aumentati, arrivando vicini a noi. Per fortuna non tanto da farci spaventare troppo, ma un paio di volto ci siamo dovuti buttare a terra. Oggi però, hanno tagliato la strada per davvero. Ormai, la retorica del “vinceremo” armena non la sopporto più. È chiaro che stanno perdendo. E la mancanza di informazione è pericolosa anche per noi giornalisti. Quando cala la notte, ormai ci si attende il peggio.

Ieri, insieme ad altri due giornalisti, abbiamo passato del tempo a Shushi. Ormai è una città deserta. Il silenzio assordante ed è rotto solamente dal rumore dei razzi che si schiantano su edifici e palazzine o dai missili grad che vengono lanciati uno dietro l’altro. Abbiamo parlato con alcuni soldati, due fratelli che stavano al fronte proprio a Shushi, dove sono cresciuti. È come se io dovessi difendere Comano, il mio villaggio natale e passassi del tempo a casa mia per mangiare aspettando di riprendere il fucile e correre verso la rotonda, difendendo la prima linea. Deve essere dura per loro. Le persone però, non perdono mai il sorriso. O almeno non lo danno a vedere. Perché a Stepanakert, stamattina, le persone hanno cambiato la faccia. Mentre sedevamo nel rifugio chiacchierando, un sibilo sempre più vicino si è avvicinato sempre di più prima di terminare in un boato spaventoso. “A 50m” dice Yuri, un anziano. Un missile azero si è schiantato molto vicino. “Aspettate, la loro tecnica è spararne uno dopo poco nella stessa direzione proprio sperando che qualche curioso esca a vedere”. Difatti, dopo 2 minuti, un altro missile si è schiantato ancora più vicino. Per fortuna ho chiamato Vadim, un amico e autista. Era per strada quando hanno sparato le due cannonate. Mi chiama, ma la rete è pessima. Capisco che è vicino perciò lo faccio parlare con Yuri che gli spiega dove siamo. Non appena ci capiamo, ci infiliamo i giubbotti antiproiettile, ci mettiamo l’elmetto sulla testa e usciamo di corsa. Il tempo di entrare in un altro bunker di corsa che un altro razzo si schianta non distante. Aspettiamo 10 minuti. Vadim è nel bunker insieme a noi. Sono felice di vederlo sano e salvo. È un militare anche lui dopotutto. Non ha di certo paura. Chi ha paura, in questi casi è il peggior nemico perché blocca il gruppo. Vadim dà il segnale dopo 10 minuti. Corriamo alla macchina, saliamo e la sua Opel Zafira schizza verso il basso della collina. Vadim si trasforma in un pilota formidabile, facendo passare il suo veicolo su strade sterrate e sconnesse ma senza prendere una buca. Io filmo tutto chiaramente. Poi, una volta sull’asfalto, torniamo a Stepanakert.

I bombardamenti su Stepanakert sono aumentati parecchio. Le sirene continuano a suonare, anche se nelle ultime notti abbiamo potuto dormire abbastanza tranquilli. I cannoni armeni sono molto vicini all’hotel ormai, facendo tremare le pareti. Ma ora l’artiglieria azera risponde direttamente. Non sono più i droni il vero pericolo, anche se l’altra sera mi sono vestito e svestito almeno 3 volte, uscendo di corsa dal letto non appena ho sentito le sirene suonare. Quando i razzi colpiscono sembra di essere un temporale con tuoni continui.

Sono stato male. Ho avuto la febbre, o almeno i sintomi. Subito tutti hanno pensato al Covid, ma secondo me sono cazzate. La gente dice che qui ci sia un focolaio. Forse è vero. Ma mi rifiuto di fare il test e dopotutto, non sto nemmeno troppo male. La settimana scorsa sono tornato a Yerevan per qualche giorno. L’idea era quella di risposarsi e decidere cosa fare. Ma è successo tutto il contrario. È stato più stancante che altro. 5 ora di macchina su strade praticamente alpine e poi, in città, spostamenti infiniti per rinnovare permessi e comprare il materiale necessario a rientrare a Stepanakert. Ma ho potuto mangiare bene: un hamburger, un calzone, una pizza e un piatto di pasta. Tutto squisito. Ne avevo abbastanza di uova sode, salsicce, zuppe e gretchka, un cereale molto conosciuto nel blocco ex-sovietico e delizioso. Volevo andare a correre, ma ero troppo malato. La corsa mi manca molto e comincio a risentire la mancanza. Ma non si può avere tutto.

Alla fine sono voluto tornare qui per seguire gli ultimi sviluppi. Da un lato non sono molto motivato a lavorare. Sono talmente provato da non riuscire davvero a concentrarmi. La malattia non mi ha aiutato. Negli ultimi giorni, ammetto che le cose sono migliorate. Dall’altro invece, so che può essere interessante poter seguire gli ultimi atti di una guerra insensata. I giornalisti rimasti sono come me. Ormai non c’è molto da fare e quindi si aspetta cercando di mantenere la calma. Con Pawel, un giornalista polacco con il quale lavoro e che parla russo (grande vantaggio perché possiamo comunicare senza spendere soldi per una guida), andiamo in giro nei rifugi, parlando con le persone oppure cerchiamo di capire le prossime mosse.

L’unica camera a disposizione all’hotel, al nostro rientro, era al terzo piano, l’ultimo sotto il tetto. È logico che, per sicurezza, non si deve mai dormire all’ultimo piano né dormire vicino a finestre. Ora la seconda opzione è più difficile ma la prima è da evitare. Il terzo piano è diventato il piano del “suicidio”, come lo chiamiamo, proprio perché sarebbe quello più esposto a un eventuale attacco aereo. Oggi, dopo quasi una settimana, siamo riusciti a cambiare stanza e scendere di un piano. Che fatica. Ma il personale dell’hotel non è molto in forma in questo momento. E quindi non voglio infierire più di tanto.

Appena tornati abbiamo fatto le scorte di cibo caso in cui taglino la strada. Abbiamo comprato pasta, riso, lenticchie, biscotti, burro e olio d’oliva. Non è stata una cattiva idea visto che ora la profezia si è avverata. Quando siamo tornati da Yerevan, abbiamo visto i soldati scavare trincee al lato della strada, preparandosi a respingere il nemico. La strada è su un promontorio, perciò non troppo facile da attaccare. Ma non penso che questo fermi le ambizioni azere. Le rallenta solamente. Mentre la macchina attraversava la zona vicino a Shushi, abbiamo assistito a uno scambio di colpi d’artiglieria in diretta. I soldati armeni, per non farsi reperire dai droni, bruciano gomme e parti intere di foreste per creare una coltre di fumo e impedire ai droni di colpire. Gli azeri invece bombardano con il fosforo per bruciare i nascondigli armeni. La battaglia è ormai aperta.

Il mio morale è basso. Molto basso da almeno qualche giorno. Non sono in grado di dire con esattezza quanto io voglia andarmene, ma è proprio in questi momenti che bisogna saper resistere. Il lavoro è diminuito, i media saranno tutti concentrati sulle elezioni americane e chi si ricorderà più, nei giorni a venire, di questo conflitto maledetto e dimenticato da tutti, dove la gente continua a morire nel silenzio più totale della comunità internazionale? Inoltre, l’accesso diventa ora sempre più complicato con un’insensata retorica sovietica dell’esercito armeno che non ci permette di fare nulla e di filmare i combattimenti.

Qualche sera fa si parlava di Sarajevo e dell’assedio che ha tenuto in scacco la città per 4 anni. Remy e Laurent, due giornalisti francesi che l’hanno vissuto in diretta, raccontavano le storie pazze di quegli anni. Erano altri tempi e altre dinamiche, ma un assedio è sempre un assedio. Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni. L’assedio però è duro per vari motivi, il primo su tutti è il lato psicologico. Essere esausti, fra persone stanche e tristi, non aiuta di certo. Bisogna restare concentrati. Per fortuna che il mio fisico ha gestito bene la malattia. La febbre non mi ha buttato a terra e sono riuscito comunque a gestire la situazione in maniera corretta. Non si tratta di eroismo, ma semplicemente di fare il proprio lavoro.

Molti giornalisti partono. Siamo pochi quelli che resteranno. Voglio vedere come tutto questo andrà a finire. E cercare di riportare tutto quello che vedo nella maniera più veritiera possibile. Perché in pochi si ricorderanno questa tragedia se nessuno la potrà raccontare. Ecco il nostro dovere.