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Quando tutto sembra collassare

 

Ieri sera era come essere a una festa. l'hotel si è svuotato parecchio, i giornalisti sono partiti. Siamo rimasti in pochi. Abbiamo deciso di invitare un po' di persone a cenare. Possiamo cucinare nella cucina dell'hotel dove una babushka, una signora molto gentile e sorridente, ci lascia fare. Mi ha promesso di fare la pizza e così lei ha preparato la pasta e io ho provato a mettere un po' di ingredienti per farla sembrare a quella di casa, ma chiaramente, dalla pizza in tempo di guerra non si può pretendere molto. Posso assicurare che era buona perché quando non c'è alternativa va tutto bene. L'altra sera ho invece cucinato per una tavolata di 20 persone un piatto di spaghetti al pomodoro, mentre Gilad, un giornalista israeliano e aAngela una documentarista armena, hanno cucinato del couscous, verdure grigliate e una specie di focaccia ripiena locale e molto saporita. Non è facile cucinare per tanta gente. Ma almeno dopo non si deve lavare. Alla fine della serata, dopo vodka e vino, tutti un po' alticci ci siamo ritirati nelle camere o gli ospiti sono andati negli altri hotel a dormire. Ora è pericoloso uscire la notte. Non tanto per i droni ma perché gli azeri potrebbero infiltrarsi in città in borghese. "Sono a 7km, Filippo" - mi dice Rafa, una guida alpina armena. Prepara una canna, insieme ad un'altra guida che io simpaticamente chiamo "Doctor Jan", in segno di grande rispetto. Gira con una tuta blu scuro e una pila frontale che pare essere più un chirurgo che uno scalatore. Ride sempre quando lo chiamo così. Ma fra una risata e l'altra, Rafa non è molto felice. "Domani andrò a Shushi, a preparare le difese" afferma. Gli chiedo se posso raggiungerlo, chiaramente voglio riportare questa storia di eroismo ma allo stesso tempo drammatica. Una guida di montagna, pronto a tutto per difendere il suo paese. Mi ha promesso che farà il possibile. 

 

Ritornando al cibo, mi manca quello di casa. Sono andato nell’unico negozietto ancora aperto vicino per prendere gli ingredienti. Ha ancora della pasta Barilla. Stanno finendo le scorte perciò ne ho comprata un po’. Anche se non è per nulla la miglior qualità, è quella che più si avvicina alla  pasta italiana. Non ne posso più di brodo di pollo con pollo bollito, zuppa di barbabietole e qualche pezzo di lavash, il pane locale, sottile e gustoso ma che stufa in fretta. Nel supermercato ormai è tutto scaduto. Salumi e formaggi sono rimasti da un mese, le birre sono sempre di meno. C’è ancora qualche alcolico, un po’ di dentifrici e doccia schiuma e qualche calzino che i soldati comprano prima di tornare al fronte insieme a tonnellate di vodka. Si legge tutto attraverso i loro occhi vuoti. Perché disperato, mi sono pure deciso a mangiare pasta in bianco a colazione, insieme a una salsiccia e un po’ di biscotti da inzuppare in un Nescafé imbevibile. Durante la giornata è difficile trovare del cibo. Perciò quando si può, è meglio mangiare.

 

Il cibo è davvero diminuito parecchio. Gli unici ristoranti che operano in città stanno esaurendo le scorte. Hovik, il mio amico armeno di origini siriane, è dovuto andare a Yerevan per assistere Isabel, sua moglie. Da qualche giorno di è ammalata. È lei che cucinava e quindi, il ristorante ha dovuto chiudere. Peccato, ma meglio così in fondo. Almeno possono prendere una boccata d’aria da questo posto. Stepanakert nelle ultime due settimane è cambiata. La gente esce, scappa dalla regione con più insistenza, i militari ormai occupano le hall dei pochi alberghi rimasti aperti. L’Hotel Armenia sembra un quartier generale. Il ristorante a volte funziona a volte no. Il cameriere, con il suo solito fare flemmatico, si avvicina e prima di dirti che la cucina è chiusa ti chiede: “dimmi”. Posso capirlo. In faccia ha un’espressione di tristezza che rispecchia la situazione che il Nagorno Karabakh sta vivendo. Non ha molta voglia di lavorare.

 

L’altra sera, per motivi di sicurezza, siamo usciti dal Nagorno andando a dormire a Goris, la prima città dopo il confine. Era come entrare a Las Vegas. Luci ovunque, gente per strada, traffico. Ristoranti aperti. Era una cosa incredibile. Tornare di qua, il giorno dopo, non è stata una decisione facile.

 

La guerra non vuole finire. Gli armeni, con la loro retorica del “vinceremo”, stanno toccando il fondo. Non so se fanno finta oppure non vogliono ammettere a loro stessi che gli azeri sono ormai alle porte delle città principali. Le batterie d’artiglieria armena sono ormai vicine a Stepanakert. Quando le cannonate tuonano, i vetri della mia camera trema. Lo dico da ex-artigliere. Almeno in questo caso, l’esercito mi ha portato qualcosa di utile. So riconoscere quando un colpo è sparato dal cannone, il raggio d’azione, ecc.… I cannoni armeni, quindi, sono praticamente appostati in città e se il raggio è di 25/30km…non ci sono molti calcoli da fare. Non ho l’orecchio per riconoscere il tipo di arma. Ma posso dire che si tratta di un aereo da combattimento, capisci subito che qualcosa non va. Per ora l’aviazione azera non ha ancora colpito molto le città. Interviene solo al fronte, ma sporadicamente. Sono i droni che continuano a terrorizzare. Stepanakert è stata bombardata in questi giorni. Oggi le sirene suonavano per avvertirne la presenza. Ma ormai fanno parte del quotidiano.

 

Cominciamo a chiederci, fra noi giornalisti, come andrà a finire tutto questo. Io ho deciso di rimanere fino alla fine. Vedere come evolveranno le cose. La verità? Vorrei tanto andarmene via. Sono stanco. Sono due settimane che non riposo, che non trovo pace. Oltre al lavoro, ci sono sempre problemi. Le persone rompono le scatole, sono isteriche, fanno scenate, cercano di depistarti oppure le autorità che ti rendono il lavoro difficile con la censura. Puoi fare questo ma non questo. Fotografa questo ma non questo. È snervante. Vuoi raccontare una storia e non te lo lasciano fare. Ma chi, quindi, si ricorderà mai di questa guerra? Chi potrà testimoniare cosa succede al fronte? Solo i soldati. Nessun altro. E questo non è abbastanza. Ma ormai, più che dirlo, non possiamo fare altrimenti.

 

Ho passato due giorni ad Aghavno, un villaggio costruito grazie a fondi provenienti dalla comunità armena in Libano. Non c’è da nasconderlo. È una colonia vera e propria e ancora in costruzione. Non siamo molto lontani da quello che succede in altri territori mediorientali. Ma non voglio creare polemiche inutili e sto zitto.

Aghvano è strategico per un solo fatto: è il villaggio a ridosso dell’ultimo ponte che separa l’Armenia dal Nagorno Karabakh. Il fiume che scende a valle, porta dritto alle postazioni azere. Il villaggio è circondato da montagne, dove sono nascoste batterie di artiglieria che da ormai giorni sparano in continuazione facendo tremare tutti i vetri delle case. Ci deve essere un cannone appostato vicinissimo, perché quando tuona, fanno tutti un balzo, tranne uno dei comandanti che gioca a una specie di solitario al pc. Non si muove di un millimetro. Il villaggio ha fatto evacuare le famiglie tre giorni fa, sintomo che le cose non stanno andando bene. Gli azeri si avvicinano e se prendono il ponte, controllano il Nagorno Karabakh. Scacco al re. Niente più rifornimenti. Siamo sotto assedio tutti. Non solo gli armeni ma tutti noi. Ci sono altre vie d’uscita, ma le opzioni sono: 1. Passare attraverso una strada a nord, sotto tiro dell’artiglieria di Baku e che oggi Aliyev ha dichiarato essere sotto controllo azero 2. Camminare attraverso le montagne per 3 o quattro giorni. Allettante? Io le scarpette per correre le ho portate. Ma non penso che servano. Nevicherà a breve nella regione. E le temperature sono molto rigide. Ogni tanto ci penso. Ma per ora, l’allarme non è ancora ai massimi livelli, bisogna solo fare attenzione. Secondo me, se dovesse succedere qualcosa del genere, faranno un corridoio umano lasciando uscire tutti i civili e i giornalisti. Speriamo.

 

Come altri giornalisti, anche io sono stato preparato per la sopravvivenza. Non bisogna pensare di essere Rambo. Ma almeno sapere cosa serve in caso di estrema emergenza per scappare. Poche cose sicuro. Ho il necessario con me. Ne ho parlato qualche giorno fa con Gilad, un giornalista israeliano. Dice di essere una guida. Ha passato 5 anni nella regione e la conosce bene a quanto pare. Ma fa ridere. È un personaggio molto simpatico. Forse l’emblema dei giornalisti di questa guerra. C’è sempre il carattere particolare che sorprende. Gilad è arrivato qui seguendo le orme dei suoi avi, dice. "Mia nonna mi diceva sempre che il nonno era partito dal Caucaso del sud, regione che più o meno corrisponde a qui. Era fuggito durante gli anni del genocidio degli armeni, dove non solo gli armeni furono massacrati ma anche altre popolazioni fra cui molti ebrei che abitavano queste zone. Fuggì quindi in Kurdistan, nell'attuale Iraq, a piedi, prima di arrivare in Palestina".

 

La sua storia è interessante. Gilad è nato a Hebron, Al-Khalil in arabo. Una città in Palestina e forse la più conosciuta per le violenze scoppiate nella regione durante gli anni. È figlio di coloni. Forse coloni un po’ estremisti. Secondo la sua tesi è dovuto fuggire da Israele per aver esposto dei fatti pericolosi che coinvolgerebbero non solo un gruppo di estrema destra nelle colonie in Cisgiordania, bensì anche il governo Netanyahu.

Tuttavia, essere israeliano qui, adesso, non è molto conveniente. Israele vende armi e i droni all’Azerbaijan e la gente lo sa. A volte è stato smascherato e ha rischiato il linciaggio. Sempre secondo le sue parole, l’altra sera, dopo un paio di bottiglie di vino, è dovuto tornare a casa dal mio hotel. Mi aveva chiesto un passaggio ma io, essendo già a letto, mi sono addormentato mentre guardavo la partita del Milan. Mi sono svegliato il giorno dopo con un messaggio che lo avevano quasi fucilato. A quanto pare, per rientrare al centro stampa dove aveva un letto, Gilad è passato da una strada che di giorno è percorribile ma di notte, è pattugliata. Erano le due del mattino e i soldati, insospettiti vedendo un ragazzo con un’aria molto mediorientale, gli hanno puntato due kalashnikov sul petto. Lo hanno scrutato attentamente prima di chiedergli i documenti. Quando Gilad ha provato a muoversi, lo hanno fermato. È riuscito a spiegare che era un giornalista e che andava a dormire. Lo hanno lasciato andare. Quando lo ha raccontato, ci siamo messi a ridere, ma ora, con i mercenari siriani alle porte della città, uscire la sera diventerà pericoloso.

La verità però, è che anche Hovik, il proprietario del ristorante siriano, pacifico e amante delle persone, lo ha rifiutato. Ha capito che era israeliano per il suo accento molto riconoscibile. Insomma, Gilad non ha vita facile da quando la guerra è cominciata. Perciò ora dice che è corso. Si è fatto pure spiegare da un francese degli aneddoti sulla Corsica caso in cui qualcuno chiedesse. Quando sento queste storie rido come un matto. Ma sono queste le storie per cui vivo. Che mi fanno amare questo lavoro spettacolare. Dice sempre “Listen brrrother”, “ascolta fratello”. È una costante prima di cominciare una frase. Con me parla un po’ di ebraico, quando non vuole farsi capire dagli altri. Ma lo nasconde se può. Conosce ogni villaggio, ogni angolo di questo posto. “Visto che nessuno sa cosa succede, la gente dei villaggi mi chiama per dirmi come stanno le cose”. E le cose, secondo queste fonti, vanno malissimo. Ieri ha provato a mettersi in contatto con decine di persone. Molte non rispondono più al telefono. O sono morte o sono nel mezzo di un ”Inferno” di fuoco, come dice lui. Le voci spaventano molto, perché sono vere. Molti villaggi non troppo lontani da qui, Stepanakert, sono sotto assedio o accerchiati. Quando si sentono queste voci, non dorme a sonni molto tranquilli.

 

Spesso Gilad è chiamato "l'ebreo". Nei paesi ex-sovietici accade non di rado. Ma non è detto con cattiveria. Il suo autista, dal nome impronunciabile ma molto simpatico e che guida come un pazzo la sua BMW degli anni '80, lo chiama così. L'altro giorno siamo andati insieme a Martuni, vicino al fronte. È una città bellissima, piena di cipressi, pini marittimi e palme. Si trova nel basso Karabakh, una regione stupenda. Ma ormai sta per cadere. Presto non ci si potrà più andare. Insomma, prima di partire Gilad ha saputo che il centro media distribuiva dei giubbotti antiproiettile. "È giusto che anche il mio autista ne abbia uno" dice. Molti giornalisti si dimenticano che gli autisti e i fixer hanno diritto alla stessa protezione. Chiama il centro ma negano che ci siano dei giubbotti in eccesso. Ma lui sapeva tramite una fonte che c'erano. Si è quindi presentato al centro di persona. lo abbiamo aspettato in macchina. Quando è uscito dal centro aveva in mano il secondo giubbotto. L'autista lo ha scrutato ridendo e ha detto in russo "sei proprio ebreo". Ridiamo, non è detto con cattiveria. Alla fine è riuscito ad ottenere quello che voleva. Con lui rido molto e questo riesce a distrarmi.

 

Mi ritrovo quindi in una posizione difficile. Onestamente, il modo di fare degli armeni, la loro propaganda spudorata e la censura sottile, rende difficile il mio lavoro. Oggi un responsabile dei media mi ha detto di cambiare il termine “separatista”. Il redattore del quotidiano Le Temps ha messo un titolo con questa parola. È un problema non poter scegliere i titoli. Tuttavia, in francese il termine “separatistes” è usato quando si parla degli armeni del Nagorno Karabakh. Ma non va bene. Bisogna usare i termini che vogliono loro. Vogliono essere paragonati a un paese con libertà d’espressione massima? Non mi sembra il caso. Al mondo nessun paese ha libertà d’espressione completa. Nemmeno la Svizzera, che si vanta tanto di essere la più libera di tutti. Ma qui, sebbene critichino gli azeri di essere dittatoriali, non sono molto diversi. Lo fanno semplicemente in un modo differente. Non passano le informazioni. Non so se sia per fierezza oppure per pura censura. Sta di fatto che non dicono cosa stia succedendo sul campo e le cose non vanno per niente bene. È pericoloso perché non possiamo capire se è meglio uscire oppure si può ancora restare.

 

A quanto pare, il fronte meridionale è un massacro alla Waterloo. E gli azeri stanno per lanciare una grande offensiva. Per giorni ho provato ad accedere alla linea del fronte per raccontare. Ci sono riuscito, ma solo su linee tranquille. Sì, i mortai cadono, esplodono, spaventano, ma non è la vera battaglia. Se vogliamo raccontare la guerra, bisogna andare a vedere il vero fronte. Non postazioni dove le persone aspettano e mettono a bollire il caffè, esclusivamente “armeno” (che poi, se sia turco, armeno o greco, io non l’ho ancora capito, so solo che se sbagli a dire il paese nel luogo sbagliato la gente si arrabbia).

 

Le emozioni sono molte. Rabbia, apprensione, paura. La tensione continua. Non solo per il timore che qualcosa accada bensì anche perché fino a che non hai la storia in mano, non hai niente. Non puoi vendere a nessuno. La guerra logora. Ogni cosa è molto complicata. Il cibo manca sempre di più, le persone sono tutte sotto stress. L’atmosfera è cambiata, sintomo negativo perché si capisce che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Ogni giorno inizia con una carrellata di problemi e dubbi. Quando ne hai risolto uno, ne comincia un altro. È automatico.

 

Il lato positivo è che finalmente, dopo due settimane, sono riuscito a risolvere dei problemi esistenziali con le persone. Ho capito che lavorare in più persone è complicato, anche se si risparmia, perché ognuno ha le proprie esigenze. Si perdono ore intere per cazzate. E poi si litiga, i fixer sono dei farabutti, le persone piangono, si attaccano. È un covo di iene. Da oggi, tutto questo sembra essere finito. I giornalisti con i quali ho lavorato sono andati via. Mi manca Emanuele, partito da ormai più di una settimana. Con lui lavoro sempre bene e abbiamo fatto dei bellissimi lavori insieme. Forse ritornerà. Sono usciti anche Alex e Amanda.-È un bene da un lato, perché, sebbene  ci andassi d’accordo e fossero ottimi giornalisti, erano causa di problemi. Amanda ha esagerato con le autorità fino ad essere stata gentilmente messa alla porta. Creava tensioni con sbalzi di umore. Alex era passivo. Era come portarsi dietro un peso morto inutile. Bravissimo nel suo lavoro, ma non era capace di fare contatti, di spingere e forzare le cose quando ce n’era bisogno. Abbiamo anche litigato per questo, facendoci separare per qualche giorno.

 

Il giorno in cui abbiamo deciso di separarci, è successa una cosa pericolosa. Abbiamo affittato una macchina con Amanda e un altro giornalista spagnolo, Pablo. Un 4x4 Jeep. Il problema di una macchina del genere in un contesto di guerra, è che può essere visto come un obiettivo. Una macchina grande, in guerra è sinonimo di comandante. Perciò i droni potrebbero attaccare. Per camuffare le macchine, molti le hanno ricoperte di fango. La mattina siamo andati alla linea del fronte di Aghdam. In trincea. Abbiamo parcheggiato la macchina in prima linea. Fa strano dirlo, ma ci siamo arrivati senza grandi problemi. Prima di partire, sotto i colpi di mortaio, abbiamo notato che la gomma era a terra. Niente panico, l’abbiamo gonfiata con una pompa elettrica, siamo usciti di fuggita dalla prima linea. Pablo ha guidato sullo sterrato pieno di buche, con mine ai lati, a una velocità spaziale, proprio perché avevano bombardato poco tempo prima. Tutto questo sperando che la gomma tenesse e che tutto andasse per il verso giusto. Abbiamo nascosto la macchina dopo essere usciti dalla zona rossa e un soldato ci ha aiutati a cambiare la gomma. Io Pablo e il soldato ci siamo dati da fare, poi all’impazzata siamo tornati in città.

 

Ma forse, il momento più triste l’ho vissuto oggi, quando ho assistito a due funerali. Il cimitero dei martiri di guerra è spaventoso. Le facce dei sodati morti negli anni sono onnipresenti. Oggi, molte fosse nuove sono scavate ogni giorno di fianco a tombe di soldati morti recentemente e adornate con fiori e foto. I funerali durano poco, perché è pericoloso. Le persone arrivano, seppelliscono la bara e vanno. In lontananza i rumori delle cannonate. Le famiglie sono distrutte. La prima bara era aperta. Il giovane di 19 anni, avvolto in una bandiera, calmo e pacifico, è stato salutato per l’ultima volta dalla gente in lacrime che gli ha baciato la fronte, prima che la bara fosse chiusa e poggiata nella fossa. La seconda famiglia è stata la più terribile. Le donne si sono accasciate sulla bara chiusa che emanava l’odore di cadavere del figlio, nipote o fratello deceduto al fronte, urlando e strepitandosi. Fotografare, filmare quelle situazioni è orribile. Ti senti male. Fuori luogo. Di troppo. Ma è importante riportare tutto questo. È lavoro e bisogna farlo.

Quando il padre ha baciato la bara, gridando una preghiera in armeno, tutto è finito. È tornato a regnare il silenzio. L’ultimo saluto. Addio figlio. Morto per difendere casa tua. Morto ingiustamente. Perché la guerra è ingiusta e non fa sconti a nessuno. La guerra è solamente l’inferno dei politici e di chi ha deciso di creare i confini.