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Evacuazione generale

Che storia la propaganda. È divertente vedere come le persone cerchino di auto convincersi che le cose stiano andando bene, quando invece stanno per collassare. Ne stavo parlando con il mio collega Emanuele al telefono ieri pomeriggio. Gli raccontavo di come le cose si stessero mettendo male per le forze armene, di come gli ospedali fossero ormai pieni di feriti (non solo da colpi di artiglieria ma anche crivellati di proiettili), i quali venivano trasportati dal fronte di Shushi con le Tabletka, delle ambulanze di produzione sovietiche ma ancora in commercio, sanguinanti e a pezzi.

 

Shushi è caduta in mattinata a quanto pare. Nella notte ci hanno evacuati da Stepanakert. A quanto pare, alcuni commado azeri erano troppo vicini. La città è stata svuotata. Le persone hanno preso quello che hanno potuto. È la fine. Dopo 15 ore di viaggio, per fare 150 chilometri, siamo arrivati a Yerevan. Non ho dormito ma il governo ci ha offerto una stanza fino per questa notte. Grazie. Forse per addolcirci. Volevamo stare dentro, a coprire gli eventi. Ma andiamo con ordine.

 

L’altro ieri, uno scenario apocalittico. La fitta nebbia copriva le alture di Shushi, ma le esplosioni dei missili e i rumori dei Kalashnikov si sentivano fino a Stepanakert. Abbiamo deciso di andare con le nostre macchine per testimoniare come stessero davvero le cose a Shushi. È un po’ che non mi fido delle informazioni date dagli armeni. Salendo la strada, dall’ultima volta in cui ci ero andato poco tempo fa, tutto era cambiato. I mortai avevano fatto solchi nella strada e i carri armati avevano reso l’asfalto marrone e tarchiato con i cingolati. I soldati, più salivamo verso la città, più aumentavano ma camminavano verso il basso. Battevano in ritirata? Forse. Un soldato, al quale Pawel ha posto un paio di domande e che fino a poco prima era nel mezzo della battaglia ha detto che era “l’inferno”.

Io alla guida con altri 4 giornalisti a bordo del 4x4 siamo avanzati. Piede sul gas, sperando che nessun missile ci attaccasse. Controllo della macchina al massimo. Nessun errore concesso. Nel mezzo della strada, scatole di proiettili e munizioni abbandonate, un’ambulanza capovolta, panni pieni di sangue. I carri armati sono apparsi dalla nebbia all’improvviso. Ci siamo fermati. “Siete pazzi a stare qui” ci ha detto un carrista. Effettivamente, se fossi un artigliere, la prima cosa che colpirei sarebbero i carri. Abbiamo fatto qualche scatto velocemente e poi siamo andati via. È stato un chiaro segnale di quello che stava succedendo. “Sono ovunque” ha detto Sos al telefono, un soldato al fronte che avevamo incontrato qualche giorno prima nel seminterrato della sua palazzina di Shushi. Difendeva la sua casa, il suo cortile dove da piccolo – come raccontava – “giocava alla guerra con i suoi due fratelli”. Oggi sono tutti al fronte. Quello vero.

 

Gli azeri, ormai inarrestabili, hanno continuato ad attaccare riuscendo quasi a spezzare le difese. Ma ironicamente, secondo gli armeni “tutto bene”. Le notizie che arrivano oggi, infatti, parlano della caduta di Shushi. Les jeux sont faits. Rien ne va plus. A quanto pare. Per ora.

 

La sera, la nebbia è diventata talmente fitta da non permetterci di vedere nemmeno a un metro davanti a noi. Ho riconsegnato la macchina affittata a Saro, per paura che la bombardassero durante la notte e quindi che dovessimo pagare la cauzione di 8 mila euro. “Sono molto vicini” è stata la sua frase, prima di andare via – “stanotte potrebbero approfittare della nebbia per entrare”. La sera, alle 8 sono crollato dalla stanchezza nel letto. Pawel, che condivideva la stanza di Stepanakert con me, era nel corridoio per fare una conferenza su internet. Quando è tornato in camera mi ha svegliato e abbiamo sentito un rumore di spari non lontani. Forse gli azeri erano in città. Forse no. Non sappiamo. Ho rimesso la testa sul cuscino, stordito. Ormai, che ci vuoi fare? Confidiamo negli armeni.

 

Ieri mattina mi sono svegliato tranquillamente. Ho dormito almeno 10 ore filate, a parte quando mi svegliavo per via del rombo dei cannoni e delle risposte azere. Ho fatto colazione e mi sono messo a scrivere. Sono sceso nel seminterrato dell’albergo quando le sirene hanno cominciato a suonare dopo alcuni bombardamenti sulla città. Poi, in seguito, abbiamo pranzato con altri giornalisti. Jana e Gabriel hanno cucinato un pollo con una salsa alla paprika. Squisito. Non so come abbiano trovato del pollo fresco ancora durante gli ultimi giorni della battaglia. Abbiamo riso e scherzato, fino a quando, improvvisamente, sono spariti tutti. Il seminterrato era deserto. Solo io e Pawel lavorando. Verso le 3 del pomeriggio, mentre trascrivevo un’intervista, Pawel mi ha detto che ci avrebbero evacuati. Non ho realizzato immediatamente la gravità della situazione. Tuttavia, non appena ci siamo mossi per andare al piano di sopra per capire cosa stesse succedendo, Gabriel è corso verso di noi “sono in città, sono in città dobbiamo scappare, veloci”. Onestamente, con il senno di poi, io e Pawel ci siamo messi a ridere per come lo dicesse con tono concitato, tutto spaventato. Sembrava l’entrata dei cosacchi a Parigi. Siamo corsi in camera, abbiamo buttato tutto in valigia il più in fretta possibile. Ho pensato anche a del cibo e dell’acqua per l’emergenza. Poi ci siamo resi conto della gravità. Nessuna macchina ci poteva portare al centro stampa di corsa, perciò, con giubbotto antiproiettile e valigie, siamo corsi giù per la strada dall’hotel. Subito abbiamo capito il caos totale. Non abbiamo nemmeno pagato l’albergo. Insomma, qualche dollaro risparmiato anche se è molto triste pensare che queste persone perderanno tutto e forse quei duecento dollari avrebbero fatto comodo. Vedremo se potremo contattarli e mandare i soldi in un qualche modo.

 

Sulla strada per il centro stampa, alcuni soldati ci hanno caricati su una Lada bianca per darci uno strappo. Pawel ci parlava pure in polacco. Il russo è di casa in Karabakh ma molti, per via dell’Unione sovietica, hanno studiato anche a Varsavia. Pawel, parlando anche russo, ha un grande vantaggio. Arrivati al centro stampa, siamo stati caricati su un’altra macchina che è partita velocemente. Abbiamo messo tutti i nostri bagagli sulle ginocchia. Di fianco eravamo stracolmi di vari oggetti personali e averi dei due ragazzi che ci conducevano verso Vank, il luogo dove ci avrebbero portati per alcune ore a una quarantina di chilometri da Stepanakert. Altri giornalisti sono stati messi su un furgoncino. Quando abbiamo lasciato Stepanakert, la situazione di fronte ai nostri occhi era palese: il panico. Tutta la città, o almeno le persone civili rimaste, stavano scappando. Una coda infinita di macchine. Chiunque cercava di caricare tutto il possibile per fuggire. Chi ha portato fuori trattori, bestiame, mobili, vestiti, cibo. Tutto. La consapevolezza era solo una: lasciare tutto per non tornare.

 

Durante il tragitto, io e Pawel ci siamo rilassati, anche se le borse sulle ginocchia pesavano e il sedere perdeva sempre più sensibilità. “Ho dimenticato il formaggio” diceva Pawel. “Tranquillo, l’ho preso io” gli ho risposto – “ma ho lasciato le birre purtroppo”. E si che, Pawel non beve nemmeno. Appena fuori dalla città, una coda infinita si è creata. Tutti cercavano di passare gli altri, creando intoppi e usando la corsia inversa per sorpassare. Un camion di fronte a noi avrà distrutto i fanali di tre macchine, scatenando l’ira delle persone frustrate e arrabbiate che guidavano. A un checkpoint, i soldati armeni fermavano chiunque fosse atto a combattere e più giovani di 58 anni. Loro, non potevano scappare. Dovevano restare a combattere. Le batterie di artiglieria erano ormai appena fuori dalla città, in riposizionamento e pronte a far fuoco. La ritirata totale di una popolazione è una cosa difficile da spiegare. Impossibile raccontare l’atmosfera. Ma si possono facilmente immaginare le difficoltà. Per fare 40 chilometri ci abbiamo messo 3 ore di macchina.

 

A Vank, ci hanno installati per qualche ora in una scuola abbandonata. Un bell’edificio donato da un magnate armeno che ha fondato alcune strutture nel villaggio molto povero. La scuola elementare era deserta. Nei lettini per i bambini, c’erano ancora i pigiamini dei bambini lasciati ancora prima che la guerra iniziasse. Quando ho preso la coperta per coricarmi e cercare di dormire rannicchiato su una di queste brandine, mi sono accorto che doveva appartenere a un bambino. Chissà dov’era? Potrà mai rivedere la sua scuola, i suoi amici e la sua casa? Mi sono sentito molto male.

 

Verso l’una del mattino ci hanno chiamati tutti. Un piccolo Van ci ha caricati per portarci a Yerevan, in Armenia. Il Karabakh non è più un luogo sicuro. Il viaggio è stato tragicomico. In parte per la coda infinta che si è protratta fino al confine armeno, quindi a circa 50 chilometri più a nord. In parte perché la gente sul pulmino era molto nervosa e eccitata. Sembrava uno zoo. Io volevo solo riposare ma era impossibile. La gente apriva e chiudeva la porta, facendo entrare spifferi di vento gelido proveniente dalle cime ormai quasi innevate. Chi voleva fumare, chi continuava a commentare urlando. Una rottura. Finalmente, le cose si sono calmate quando il traffico ha cominciato a scorrere, verso le 4 del mattino e la gente si è addormentata. Alle 9 di questa mattina siamo entrati a Yerevan. Finalmente.

 

Come detto, il governo armeno ha pagato a me e ad altri 7 giornalisti una camera d’albergo per questa notte. Potremo dormire tranquilli. Sono esausto. Tutta la giornata, oggi, l’ho passata a scrivere, preparare le foto e i video. Non è ancora il momento di riposare, ora. Arrivati a Yerevan, la notizia che Shushi era caduta ci ha colpiti. Ma sono solo le parole del presidente azero. Non abbiamo nessuna certezza, tranne quella che ci sarà da sgobbare.

 

Infine, Stepanakert potrebbe essere la prossima. Oppure si fermeranno? non lo sappiamo e quindi rimaniamo in Armenia per vedere gli sviluppi, anche se ho tanta voglia di andarmene. Sono veramente sfinito. Ma la mia passione, la voglia di scrivere, di raccontare, è più forte di me. La mia infinita curiosità non mi fa muovere. Oggi, insieme a molti giornalisti, ci siamo scambiati idee, storie. È stato un momento conviviale dopo tutte le ore caotiche passate a correre a destra e manca, salire e scendere dai pulmini e dormire in condizioni non proprio ottimali. Ma questa è anche la vita del corrispondente di guerra. Non si può di certo pretendere il lusso. Stanotte però, spero di poter sfruttare il lettone dell’albergo e domani, ritornare al lavoro fresco.