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19. Diari afghani 

Giorno 1 - La conosci la Kalima?

Parwan. 

Il mujahid ferma il taxi al checkpoint. Il finestrino si abbassa. “Da dove venite?” “Ghorband” risponde Nasrat. “Perché siete andati a Ghorband?” chiede il mujahid con tono concitato, quasi agressivo. “Per lavoro, un’intervista” ribatte Nasrat mentre il talebano, con la lampadina illumina la mia macchina fotografica sul sedile posteriore. “Di chi è la macchina fotografica?” chiede allora. “È sua” dice Nasrat indicando me, che lo guardo salutandolo con uno sguardo mezzo assonato per l’ora e la giornata di lavoro passata nelle valli più sperdute dell’Afghanistan. “È afghano?” “No straniero” “È musulmano?”. Nessun risposta. Il mujahid si innervosisce. Apre la porta posteriore, dove sono seduto. E mi chiede in persiano: “capisci il persiano?” “SÌ” ribatto, un po’ innervosito dalle domande e dall’impertinenza. “Sei musulmano?” “Non rispondo a questa domanda” gli dico. Cosa c’entra? “Preghi?” ribatte ancora lui, facendo il segno della preghiera islamica. “NO, non prego e non sono musulmano” dico. Quando le cose sembravano degenerare, il talebano mi chiede: “Kalimat iad dari?”, “conosci la kalima?” riferendosi alla frase del Corano “Non c’è altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta”. La frase è considerata importantissima e per convertirsi o provare che si è musulmani, bisogna pronunciarla. Inutile dire che ne ho abusato centinaia di volte per entrare in moschee, avere favori e godere di pari diritti. Chissenefrega dopotutto. Mi sono convertito mille volte quindi. Che differenza farà mai, se lo facessi ancora una volta? Forse è l’unica cosa utile di arabo che ho imparato all’università. Allora, non appena il mujahid mi pone la domanda, per levarmelo di torno ripeto: “la illa illallah umuhammad rasulullah”. Nasrat mi guarda trattenendo le risate. Io serio. Il talebano, impietrito, sorride, mi da la mano e dice: “vedi? L’ho convertito”. Partiamo, Nasrat e Shamshad, l’autista, scoppiano a ridere, increduli. Io sorrido, un po’ irritato ammetto. Ma dopotutto, siamo felici: lui, secondo la sua concezione religiosa andrà in paradiso per aver convertito un kafir, un infedele. Io invece me ne vado via contento di essermelo levato dalle palle. Insomma, quello che in economia si chiama win-win situation. Ma non vi preoccupate, non tutti i talebani ai checkpoint sono così. Alcuni rubano pure i preservativi. Ma ci torneremo. Buona notte. 

GIORNO 2 - Non ti arrabbiare, voglio solo scattare una foto


Provincia di Jowzjan – distretto di Qush Tepah


Alla fine, mi sono arreso. Ho fatto una foto solamente di un tandoor (forno tradizionale) accompagnato da tre paia di scarpette nere sporche di terra e una macchina da cucire con due panni ricamati. È il mio valore artistico aggiunto per aver intervistato una donna vittima di un bombardamento Nato. Si sa che parlare e fotografare le donne è argomento tabù in Afghanistan, specialmente nelle provincie. Le donne sono per strada ma si coprono il viso, non parlano. Guai a fotografarle. E quindi anche in questo luogo dimenticato da tutti, popolato da uzbeki e preso di mira dalla Nato perché rimasto sotto il controllo dei talebani (quindi i talebani non solo i pashtun come molti pensano) per anni. La provincia di Jozwjan -nel nord dell’Afghanistan, al confine con il Turkmenistan- è famosa per il signore della guerra Dostum, crudelissimo protettore degli uzbeki afghani, e per il buzkashi, un gioco con i cavalli e una carcassa di capra imbalsamata a mo’ di pallone (è da vedere). 
Foto alle donne quindi? No. O ti fai furbo e le prendi di nascosto, oppure la gente si arrabbia sul serio. Ogni tanto ci provo. Ma in quanto maschio, devo essere già felice se riesco a parlarci. Bisogna inventarsi di tutto per organizzare un’intervista con una donna in provincia: lei si nasconde dietro un muro o una tenda, oppure mette il chadori (il burqa) e ti dà le spalle. Problema (semi) risolto. Quindi, di fianco al forno, , mi metto quindi in pole position, seduto su una coperta messa per terra. Lei, con il chadori, siede a 2 metri. Non ci guardiamo quasi. Ma ci sarebbe poco da vedere comunque. Di fianco, Obaid (il traduttore) deve far tradurre a Hajji Zia Khan -un uzbeko talebano che ci accompagna- dall’uzbeko al dari e poi dal dari all’inglese. Non ho ancora il livello per capire una conversazione complicata. Lei parla, racconta la sua storia. In breve: bomba Nato, 5 persone morte, due figli, il marito e due familiari sepolte dalle macerie del tetto. Casa distrutta. Tutti innocenti. Mai una scusa da americani o governo. Novità? Macché, un caso fra i mille in Afghanistan. Di cui nessuno parla e di cui io, ora, sto cercando di portare alla luce; quindi, ne sentirete molte in questi giorni. Alla fine dell’intervista, terribile, oso porre la domanda catartica: posso scattare una foto della signora con dietro il forno? Iconica anche se banale, visto che ce ne sono in giro troppe. Ma molto significativa perché è fra le poche donne che ho avuto modo di intervistare nelle provincie. Ecco Zia Khan che si aizza: “Eh no” dice al traduttore – “digli che è proibito, non si può” mentre fa correre in casa la donna nella paura che io scatti una foto di rapina. Mannaggia, mi ha fregato sul tempo. Ma non sono così maleducato. Non era così grave. Per finire quindi, ho fotografato la macchina da cucire che usa la signora per lavoricchiare e sfamare i suoi figli. Dopo aver perso il marito, ha dovuto inviare illegalmente in Iran il suo figlio più grande per far sì che mandi qualche spicciolo a casa (cosa molto comune in Afghanistan). Sorrido compiaciuto a Zia Khan, che mi guarda stizzito. E che sarà mai, su. Poi si calma e sorride, ma ci vuole mezz’ora. 
In seguito, poco più in basso in un altro villaggio, chiedo al marito di una moglie uccisa da un razzo Nato, Haji Akram, se sono il primo straniero a venire: “A parte i soldati stranieri che ci uccidevano, sì, sei il primo” dice. Da andarne fiero insomma. Sono frasi memorabili. Mi porta a vedere il cimitero, situato in un luogo di rara bellezza. La vista è stupefacente: valli ricoperte dei colori d’autunno, alberi spogli che si preparano a svernare, e le colline soavi un po’ verdi un po’ brulle accompagnate, sul fondovalle, da una serie di villaggi composti da casolari in fango, con le porte variopinte. Pittoresco. Ma Akram guarda la tomba, non il paesaggio. Scoppia a piangere. Io devo fare il mio sporco lavoro: fotografarlo. Ancora, non ne vado fiero. Ma lo faccio. Poi lo consoliamo, lo salutiamo, scendiamo, saliamo in auto. Torniamo verso Sheberghan, il capoluogo della provincia. Solo 100km. Ma per farne 50, ci vogliono 2 ore. Si possono immaginare le condizioni della strada. Jabbar, l’autista, muove il volante come se fosse in un autoscontro al luna park da quanto balla. Sono finito in capo al mondo per davvero. Un luogo talmente remoto che sono state lanciate più le bombe Nato sul villaggio che il numero di automobili presenti. E non penso nemmeno sia il più dimenticato del paese. Per strada ci fermiamo varie volte. Devono pregare tutti. Non si arriva mai. Cala il buio. Si torna in città. E davanti a un piatto di Qabuli Palaw, cominciamo a parlare con tutti per capire dove trovare altri casi per domani. I casi odierni sono solo piccoli incidenti. Irrilevanti.  

GIORNO 3 - TIROMANCINO


Provincia di Sar-e-Pul -distretto di Sayad

Sono nato mancino. Ne sono orgolioso. Ma non è ovunque una cosa positiva. In Afghanistan, ma non solo, è la mano considerata “sporca”, per ovvi motivi. Ho un bel problema, visto che si mangia quasi sempre con le mani. Nessuno mi ha mai detto nulla fino a questa mattina, quando un uomo, in un ristorante di Sar-e-Pul, piccola cittadina sperduta nel nulla, mi continua a fissare. “Cosa vuole questo?” mi sono detto. Conosco anche chi, dopo svariati secondi con gli occhi puntati addosso, gli avrebbe girato letteralmente la testa con le mani. Poi chiede: “Ma mangia con la sinistra?” e Obaid, la guida, risponde: “Si è mancino”. Mi sono messo a ridere, ma mi ha fatto capire quanto sia rilevante in questa cultura. “Ecco perché siamo arretrati” – esclama Obaid interrompendo il mio pensiero – “perché invece di pensare ad evolversi e studiare, qui pensano ancora a chi mangia con la mano sbagliata”.
Questo è stato l’inizio divertente di una giornata infinita. Sono finito nel distretto di Sayad, in mezzo al nulla (tanto per cambiare) -in un luogo paradisiaco ma dove ancora non è arrivata la connessione del telefono- accompagnato dalla mia squadra, un talebano che non aveva idea di dove fossimo e un afghano che mi parlava in turco. Dopo aver vissuto 5 anni a Istanbul, illegalmente come la maggior parte degli afghani che fuggono per trovare qualche spicciolo in più, è stato deportato ed è tornato a Sayad, il suo distretto natale. All’inizio non volevo farlo salire in macchina, soprattutto per avere più spazio, ma si è rivelato provvidenziale. Per darvi un’idea di dove sono finito (nelle foto), era come essere in un labirinto di strade sterrate, guadi o prati, in mezzo a colline brulle, verdastre, insieme a asini pastori e pecore. Alcuni contadini arano campi sulle pareti delle montagne, oppure portano le provviste per l’inverno in grotte scavate nella roccia. E Faiz, il rinnegato turcomanno, conosce tutto a memoria. Meno male. Alla fine, è simpatico, chiacchieriamo. Io con il mio turco maccheronico mischiato al persiano. Lui con un accento uzbeko persiano incomprensibile. La macchina di Jabbar, a 10 km/h, sale e scende dalle colline. Sembra un deserto di dune rocciose. Il posto è soprannominato “Registan”. Capisco il perché. Dobbiamo raggiungere il villaggio di Ashdabala. Ci vogliono le solite 2 ore e mezzo di sterrato. Ancora in mezzo alla polvere. Ne sto mangiando troppa, davvero. Passiamo attraverso villaggi rimasti davvero indietro. Dove la gente vive in maniera tanto semplice e genuina. Acqua dal pozzo, asinelli, qualche motocicletta e la cosa più bella, il cibo fresco. Altro che chilometro zero. Delizioso. A me piace andare nei villaggi per mangiare, perché si sente la differenza. Non tutti sonno d’accordo perché molti avrebbero la dissenteria. Ma sono abituato. Le condizioni, in effetti, sono molto spartane. La gente è poverissima. Soprattutto nelle provincie come Sar-e-Pul, dimenticata da tutti, ma non dalla Nato, che, come al solito ha mietuto vittime anche qui. Solo 6 mesi fa, una casa civile di 3 famiglie è stata bombardata senza un vero motivo. Arrivo sulla scena a bordo di una motocicletta di uno dei sopravvissuti che mi accompagna. Voglio andare in moto per scattare qualche foto ma scivolo e non riesco a stabilizzarmi. “Engineer Sahib” mi chiama, “signor ingegnere”, “7 sono morti, 8 feriti”. Sono sordo, specialmente con il vento e il rumore del moto, quindi ogni volta: “Che hai detto?”. Obaid dice che tutti ridevano per il fatto che fossi saltato sulla moto. Aver visto uno straniero era già di per se un evento. Se poi è saltato sul sellino di una moto diventerà l’argomento di mesi. Forte.

Nel cortile della casa, i segni della bomba. Si riuniscono i familiari e gli immancabili curiosi, venuti ad assistere alla provvidenza dello straniero arrivato in paese. Le donne filano in casa, anche se poi posso intervistarne alcune. Fra loro Khalida, 7 anni. Ha perso il suo piedino: “Vorrei tanto averne uno nuovo per giocare con le mie amiche” dice mettendosi la mano di fronte alla bocca in segno di timidezza. Mentre parla, i bambini del villaggio si affacciano per spiare la conversazione, arrampicandosi sui muretti in pietra. Khalida ha la gamba ricoperta da un panno. Una sciarpa che le permette di poggiare l’arto monco per terra e evitare di ricordarsi quanto successo. Per mostrarmi la cicatrice, si toglie il panno. Non è il primo caso che vedo. Ma questo mi tocca talmente tanto che vorrei poter trovarle la protesi e permetterle di vivere un futuro meno duro. 900 dollari costa, cifra inarrivabile per loro. Appena arrivo in terra conosciuta, contatto Emrgency per sapere se fanno protesi. Non ne fanno. Vedrò di cercare un contatto a Kabul. 
Al ritorno siamo stanchi morti. Pieni di polvere. In cima a una collina scorgiamo un panorama mozzafiato. Sembrano dune con in fondo le alpi innevate e, per chi mi conosce, saprà benissimo che la tentazione di cominciare a correrci è stata fortissima. Dovremmo organizzare una gara podistica. Ci scattiamo un paio di selfie mentre Obaid, Faiz e il Talebano si divertono a sparare qualche colpo di AK-47 nel nulla più totale, ascoltando il sibilo del proiettile.  “In Afghanistan bisogna provare di tutto” dice Obaid sorridendo. Al calar del sole avvistiamo nuovamente l’asfalto. È finita anche per oggi. Lungo, duro, ma stupendo e entusiasmante. Sul finire, l’ultima scena che fa riflettere: checkpoint. Un bambino con un fucile in mano. Avrà avuto si e no 13 anni. “Multi tasking” commenta Obaid. Non serve solo a combattere quindi. Domani sveglia alle 5 e si ripete tutto daccapo. 

 

GIORNO 4- LA POLVERE DI GORZIWAN

Provincia di Faryab – Distretto di Gorziwan 

Vogliamo parlare di casini? Lo so, mi lamento sempre. Ma in questo caso, sono sicuro che molti di voi si lamenterebbero ancora di più. Per chi fa il mio mestiere, o chi lo ha fatto, sa bene cosa significa viaggiare in queste condizioni: gente inaffidabile, informazioni sbagliate, perdite di tempo inutili, viaggi interminabili, un continuo contrattare per ogni cazzata, litigate memorabili … Di sfide, ne potremmo elencare ancora altre. Le chiamo sfide perché sono, dopotutto, esperienze arricchenti.
Stamattina ci svegliamo alle 4. Partiamo da Sheberghan, nella provincia di Jozwjan, per arrivare a Maimana, a Faryab (mappa). 3 orette, niente di che. Strada poco accidentata a parte le buche lasciate dalle bombe. Ma a Maymana non è finita: ancora 3 ore di strada per arrivare a Gorziwan. Sapete dov’è? Nemmeno io. Non sappiamo dove andare. Ancora una volta nel mezzo del nulla. Perciò a Maymana paghiamo un signore perché ci accompagni. 75km di sterrato infinita, salendo e scendendo montagne. La Toyota Corolla (non un 4x4) sale ovunque, non molla un colpo -anche se la batteria a volte cede facendomi presagire il peggio persi nel nulla- e il motore soffre. Si inerpica su “strade” che sembrano più pareti rocciose, o sentieri per la corsa in montagna. Supera buche e cunette. Oggi la polvere è davvero troppa. Siamo letteralmente sommersi tanto che i vestiti si ingrigiscono, cosi come i capelli. Il mio peran tomban blu è a macchia di leopardo.
Questo è solo uno dei problemi da affrontare. Il tempo è un altro fattore. Pensi sempre di avere molto tempo a disposizione per lavorare, ma la maggior parte la passi seduto in un’auto e non appena arrivi, fanno tutti pressione per ripartire. Da impazzire. Devi essere rapido e concentrato. Difficile quando non si mangia, non si beve e non si dorme molto. Ma bisogna essere sempre al massimo delle energie per scrivere, parlare, creare, immaginarsi le domande e condurre le interviste nelle situazioni più improbabili. Nei luoghi più improbabili. Tra l’altro, ieri ho rotto il microfono. Sono due, in meno di due mesi. Sono delle baracche d’oro. Quindi dovrò ingegnarmi con del nastro adesivo per stabilizzarlo. Sono queste le sfide che mettono a dura prova la pazienza. Ma soprattutto il modo di fare che qui, i fixer in Afghanistan, hanno con la preparazione delle storie. Frase tipica: “andiamo sul posto e vediamo”. Certo, come no. 3 ore di macchina su una strada terribile per arrivare e non trovare nessuno? Saggio. Ma anche se lo dici e lo ripeti, non serve a nulla. È tutto all’ultimo momento. E ieri non ci ho più visto: “Ecco vedi? Ora non ho nulla in mano” dicevo a Obaid e lui: “cosa vuoi che faccia?”. Da ucciderlo (detto con amore chiaramente).

Quando, dopo 6 ore di macchina, giungiamo infine a Garziwan (vedere la mappa per capire dove sta), una località ancora uzbeka nel mezzo di una vallata desertica, succede proprio così. Io, sepolto dalla polvere, voglio solo sgranchirmi le gambe. Jabbar, non appena scendiamo dall’auto, mi sbatte contro la sciarpa che usa per pregare per togliermi la polvere di dosso. Si fa per dire, visto che è letteralmente troppa. Ma almeno ho le parvenze umane. Attraversiamo il bazar. Oggi è giovedì, giorno di mercato: furgoncini caricano passeggeri in direzione di Ghor, una provincia sperduta nel nulla, mentre la gente vende di tutto, comprese un set di stufe tradizionali nuove di zecca. Sopra le colline desertiche, le cime delle montagne dell’Hindu Kush sono già bianche: la neve si avvicina e l’aria fresca lo fa presagire. I colori del bazar sono spettacolari. Forse il più affascinante che abbia mai visto. I vestiti della gente, il chadori (burqa) delle donne azzurro che è in contrasto con la terra marroncina. I tappeti e i tessuti esposti vicini alla frutta di stagione e ancora i falegnami che fabbricano finestre e porte per i casolari in fango, venditori di popcorn e macellai. Nel mezzo asini, mucche, pecore. 
Non si va a Garziwan senza un motivo. È talmente remoto. Infatti, ci siamo arrivati per un caso di bombardamento Nato: 13 morti questa volta. Una sola famiglia. Sopravvissuti padre, madre e due figli. Incontriamo il padre nel cortile della casa in macerie. Ora vive in un altro luogo. Mi racconta di come sia successo, di come lui si sia salvato per miracolo insieme alla moglie. Ma è disperato. Uno dei figli si è arruolato a 14 anni con i talebani, contro il suo consenso. E, visto che la sua casa era sotto il controllo del governo, il comandante dell’area ha voluto vendicarsi, distruggendogli la casa e dando le coordinate ai jet americani che in un battibaleno hanno spazzato via con 4 bombe tutto quello che avevano. Una semplice vendetta locale. Un disastro umano. 
Mentre parlo e chiedo, il tempo sembra volare. Jabbar fa pressione per tornare dicendo che la strada è pessima e che presto sarà notte. La gente si esprime male, non si capisce, mischia l’uzbeko con il dari. Perdiamo tempo con queste sottigliezze. Forse sono io il casinista. A volte me ne rendo conto.
Tornati a Maymana, già notte e distrutti, ultimi problemi da risolvere: trovare un hotel? Se ci fosse … Dormiamo per terra in un ristorante, due coperte e via. Ci portano un delizioso piatto di Palaw dopo una giornata di digiuno e 10 ore passate in macchina. Per la doccia, c’è solo acqua fredda. Andrà benissimo per rigenerarsi. Domani parto alle 4 del mattino direzione Qala-e-Naw, provincia di Badghis. Forse una delle provincie più disastrate, remote e dimenticate del paese. Sarà ancora peggio. Ancora più imprevedibile. Ho organizzato un autista che mi porterà, dopo aver trattato il prezzo: voleva 140 dollari, io gliene do 30. Ho imparato l’arte del baratto da mio cugino. 6 ore di sterrato. Sono curioso. 
Domani però, mi separerò da Obaid e Jabbar. Torneranno a Mazar-e Sharif. A Qala-e-Naw incontrerò invece Anwari, un nuovo fixer locale. Non lo conosco, tutto è alla cieca. All’avventura. Forse è questo il brivido di questi viaggi, buttarsi nell’ignoto. Io, me e l’Afghanistan. A proposito, ho trovato forse chi si occupa della protesi per la bimba.