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2. A Kabul c'è tempo per tutto... Ma ci vuole più tempo

 

La vita in Afghanistan ha un altro ritmo rispetto a quella in Occidente. Le cose funzionano in maniera complicata perché la burocrazia è incredibilmente contorta, la corruzione è ormai arrivata a livelli spaventosi e la popolazione cerca di arrabattarsi come può. “Il traffico è peggiorato un sacco dopo il lockdown” racconta Shahab. Si perdono letteralmente ore per passare da un lato all’altro di Kabul. Le arterie sono tutte intasate. Non che prima il traffico fosse scorrevole. È sempre puro caos anche in una situazione normale. Perché ognuno fa quello che vuole e, per evitare di perdere decenni nel traffico, andare in contromano è ormai una prassi. Mi sento libero. Niente cintura, niente problemi per parcheggiare. È una giungla ma è molto più rilassato. in confronto, i poliziotti ticinesi, manipolati e annoiati, trovano cavilli solo per disturbare. Anche qui la polizia rogna se ti ferma. Ma sono veramente analfabeti, non lo sembrano soltanto. E quindi si può cercare di arrivare a un accordo con le buone o...con le cattive. Poi ci sono i politici che con macchinoni blindati passano indisturbati. Gli alti ranghi del governo sembrano quasi divertirsi – con la scusa della sicurezza – a privatizzare intere vie pubbliche sbarrandole con soldati o muri di cemento anti-esplosione. Così da creare ancora più scompiglio. È chiaro che nessuno riesce a rispettare gli orari, a fare le proprie commissioni. "Ok, si farà domani, seguito da un immancabile In sha’a Allah". Mettere tutto nelle mani dell’onnipotente è sempre facile. Quasi una scusa per togliersi un peso.

 

La prima mattina dopo il mio arrivo sono andato con Shahab a terminare la procedura del mio permesso di soggiorno. Un processo che ha preso mesi, anche a causa del coronavirus. In sostanza, per rendere l'idea, queste le  varie tappe: creare una lettera di un'agenzia mediatica afghana. Chiedere una nulla osta al ministero degli affari esteri, poi a quello del lavoro per ottenere il permesso di soggiorno,  tornare a quello degli affari esteri e andare a quello dell’interno per confermare l'assenza di crimini. Infine passare per l’ufficio passaporti, senza dimenticare le ore in banca per pagare il visto – e non qualsiasi banca ma una sede specifica della banca nazionale che accetta i dollari – e tornare ancora all’ufficio passaporti. Tutti gli uffici a distanze chilometriche. Solo il pensiero di doverlo rifare fa stare male. Il personale è scortese, arrogante. C’è chi si crede chissà chi solo perché lavora per una burocrazia statale. Succede anche da noi. Spesso, l’indolenza e l’arroganza dei burocrati non mi sorpedne affatto. Dal Ruanda, a Lugano fino a Kabul, queste persone che si credono potenti solo perché possono decidere se metterti o meno un timbro sul passaporto. Mi fa innervosire. Ma so anche che il mio “amico” lo dovrò incontrare nuovamente in marzo per rinnovare il permesso. E quindi, meglio fare buon viso e cattivo gioco. Alla fine essere scortesi è controproducente, anche se la tentazione è forte.

Nell’ultimo ufficio, dopo aver subito gli atteggiamenti insolenti e boriosi dell’impiegato di turno- che mi tratta come un menomato- ho preso il mio passaporto e me ne sono uscito salutandolo cordialmente, facendogli però capire di essere più gentile la prossima volta. È rimasto sorpreso per un momento, prima di capire che poteva anche cambiare tono.

 

Alle 3 del pomeriggio, dopo mesi di lavoro, finalmente sono un residente straniero in Afghanistan. Che sollievo! Abbiamo un'intervista alle 5. Shahab mi porta a casa di Khan, un suo parente e parlamentare nella Wolesi Jirga, la camera bassa in parlamento. L’avevo intervistato a febbraio. Mi ricordo che il suo personale era  molto simpatico. Era proprio prima dell’inizio dei problemi dovuti al lockdown. Un ragazzo moriva dalla paura: “il corona ci ucciderà tutti” diceva. E tutti a ridere come matti. Khan ha un ufficio a Karte Seh, uno dei quartieri che preferisco di Kabul, dove si può ancora assaporare, sebbene in minima parte, come doveva essere la città qualche decennio fa. Prima che tutto il marasma cominciasse. Dovevano esserci pini marittimi che ricoprivano i lunghi viali, senza nessun muro in cemento e villette più o meno grandi. Un grande villaggio da favola. Con un clima ottimo, attorniato da montagne mozzafiato. Caldo ma secco. Oggi invece, Kabul è un caos. Palazzi spuntano come funghi senza nessun concetto urbanistico, alternandosi a case kitsch costruite da nuovi arricchiti senza il minimo gusto. È vero, la moda è cambiata, ma quello che si dice della vecchia Kabul, dei vecchi fasti, sembra essere ormai scomparso, o almeno nascosto da quello che la guerra ha portato.

 

Ismat, il segretario di Khan, siede vicino a me. Vuole parlare inglese. È molto gentile. “Voglio terminare il mio corso di inglese, il mio master, e poi fare un PhD in Turchia. Il ministro degli esteri ha detto che mi aiuterà”. Funziona tutto così. A contatti. In Afghanistan, i contatti ti portano al presidente più veloce di quanto non si possa pensare. È bello anche per questo. Perché tutto è possibile. Ismat vuole sposarsi: “Ho una ragazza. Si è appena laureata nella mia stessa università. Ma non siamo mai usciti insieme. Da noi non si fa. Parliamo, conosco la sua personalità. Basta così. Non è come da voi. Qui ci incontriamo solo dopo il fidanzamento. Però discutiamo su whatsapp o al telefono. Suo padre è morto a causa del covid qualche mese fa. Devo aspettare almeno 6 mesi prima di poter chiedere la sua mano alla famiglia. Dopo un lutto in famiglia, devono passare mesi prima di poter fare un matrimonio” dice. Ismat ha una visione critica dell’Afghanistan post-covid. È uno dei problemi più grandi in questo paese. La criticità. Lo spirito critico manca da morire. Soprattutto perché molti sono analfabeti. Non c'è più un'élite e il paese è in mano a mafiosi o giovani cesciuti all'estero che si spartiscono i ruoli nel governo. “È un disastro. L’economia è a pezzi. Vedi questa mela? Prima la vendevamo al doppio del prezzo. Il mercato è crollato. La gente ha fame, non ha infrastrutture. Come fai a pensare che poi non vogliano combattere? Che altra scelta hanno, scusa?”. Non poteva dirlo meglio. È la realtà dell’Afghanistan. Lo sviluppo millantato dall’occidente non ha toccato quasi nessuno se non le classi politiche. Milioni entrano ogni mese nel paese. Ma il paese vive nella miseria più totale. “Per la pace, l’europa ha stanziato 70 milioni di euro al ministero della pace” racconta Nargis. Imbarazzante. Milioni mentre la gente non ha di che mangiare. "Solo Kandahar e Helmand, due provincie a sud, hanno incassato 350 milioni di dollari  al mese per anni da USAid, l'agenzia di sviluppo del governo americano. Ma cosa hanno fatto?" tuona Kabir. Ha ragione, non hanno fatto proprio nulla. la gente vive nella miseria più assoluta comunque. E le infrastrutture non esistono. 

 

La casa di Khan è parte della nuova generazione di edifici. Molto Kitsch, con bordi orati e colori che rimandano la mente a Las Vegas più che all'Asia centrale. i vetri sono oscurati ma con riflessi blu. Costurire una casa in Afghanistan non è caro per nulla comparato alla Svizzera o all’Italia. Con 300 mila dollari si costruisce un vero e proprio maniero. Ma la qualità non è molto alta. Khan ha fatto i soldi con l’acciaieria che possiede nella periferia della città.

 

Dopo il chai, il té, ci dirigiamo verso la casa di Nabil Sahib, un personaggio molto importante della politica afghana. Già direttore dei servizi di intelligence nazionali per anni, ora è un personaggio imprescindibile della politica nazionale. Si è candidato alle elezioni del 2019, ricevendo pochi voti,  anche perché la frode elettorale è stata senza precedenti. Il governo non gode di molta popolarità fra gli afghani. Specialmente il presidente Ashraf Ghani e il suo principale rivale ed ex CEO, Abdullah Abdullah. Tutta la cricchia governativa è molto spesso comparata a una mafia, dove i vecchi signori della guerra, che prima dei talebani si combattevano fra loro, ora si spartiscono il potere come se fossero eroi e derubano le casse del paese. Insomma, gli occidentali hanno rimesso al potere chi è stato responsabile di distruggere il paese in precedenza, dopo averlo liberato dai sovietici. È un governo di autocrati, spesso afghani cresciuti all’estero.

 

Nabil è molto gentile. Possiede un cane di razza afghana, molto dolce. Mi ricorda il cane di Emanuele, Fanny. Era uguale. I cani, in Afghanistan, come in molte culture islamiche, non sono molto apprezzati e sono visti come animali sporchi. Ma Nabil vive fra Kabul e San Francisco, dove ha fatto espatriare gran parte della sua famiglia. A Union city, circa 25 chilometri dalla metropoli californiana. “Vivono circa 40 mila afghani, è la città americana con più espatriati afghani. Hanno anche rinominato vie come De Afghanan o altre città” racconta, prima di cominciare un’intervista sul futuro del paese. Ci porta in un Dalaan magnifico, un tipico salotto afghano, con cuscini poggiati per terra. I muri sono in terra battuta tipica con esposti dei vasi e delle foto d’epoca. Anche l’illuminazione è molto bella. Mi ci innamoro subito. È situato nella corte di casa sua, situata nel quartiere di Shash Darak, nel mezzo dei quartieri generali dell’intelligence. Un posto molto controllato. Per entrare ci vogliono vari controlli. Dentro sembra un altro mondo. I muri in cemento hanno nascosto molte case stupende. Passando questi muri, quasi come in un prigione, appaiono ville bellissime. Forse un giorno, Kabul, riacquisterà la sua magnificenza.