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17. Salang, Jalal, Afghanistan

 

Il passo del Salang. Storico, nell’immaginario di tutti. Mitico. Soprattutto per quelle generazioni che ricordano l’invasione sovietica dell’Afghanistan. La guerra, i mujaheddin, i talebani, Massud, i shorawi (i comunisti), gli elicotteri i lanciarazzi. Ricordi dell’epopea di quei combattenti afghani diventati eroi in tutto il mondo occidentale, che sembravano combattere per la libertà ma che poi si sono arricchiti e imbruttiti con il denaro facile occidentale che ha detto loro: “Me ne lavo le mani, fate quello che volete basta che noi controlliamo”. Massud compreso, anche se in giro per tutto il paese, i tagiki ancora affezionati a lui lo ricordano come Qarhaman-e- Keshwar, eroe nazionale.

 

Non avevo mai visto il passo del Salang, oggi zona off, off, off, off limits per qualsiasi occidentale. Sulla strada banditi, posti di blocco dei talebani, servizi segreti. Sembra di essere tornati alla diligenza che saliva sul passo del San Gottardo a fine ‘800. Arrivare dall’altro lato? Certo. Come? Dio solo lo sa. Qui, più o meno la stessa cosa nel 2021, ma pronunciando In sha’a Allah. Insomma, sempre nelle mani di Dio siamo.

 

La cosa divertente. O almeno, che diverte me perché dimostra quanto incompetenti siano gli eserciti internazionali e il loro proxy per eccellenza, l’esercito afghano, è che il primo pezzo di strada della famosa Kabul-Mazar highway (sembra quasi che gli americani pensassero fossero fra DC e New York City)- ovvero la strada che dalla capitale porta al nord, attraversando, appunto, il Salang- è un tratto sensibile. Perché? La risposta è Bagram. La più grande base americana e dell’occupazione Nato in Afghanistan. Di notte, sembra scorgere New York da lontano in mezzo al nulla più assoluto, per quanto inquinamento luminoso produce. Non è distante dalla Highway. Per dare un esempio, a pochi chilometri dalla deviazione che porta alla base, distante qualche chilometro, c’è il villaggio di Qarabagh. Storico villaggio, dove nel 2001/2002, durante l’invasione americana, i talebani e l’Alleanza del Nord si combattevano su un’immaginaria “linea del fronte”. Oggi, questo villaggio a un 30ina di chilometri da Kabul, ma situato già nella provincia di Parwan, è a volte attaccato dai Talebani. L’esercito non controlla nemmeno la strada che porta i rifornimenti alla più grande base Nato del paese e della regione. Con tutti i milioni stanziati per la difesa, è uno scandalo. Ma dall’altro lato, i Talebani, con mezzi nettamente inferiori, li hanno distrutti, tenuti in scacco per quasi 20 anni. Diciamolo chiaramente, li hanno presi a randellate. Come il Giappone he batte la Mongolia 14-0 alle qualificazioni mondiali. Non c’è stata partita. La resistenza è sempre più forte. Napoleone ci ha fatto i conti in Spagna, il vero inizio del suo declino. Imbattibile. I francesi in Algeria, la vera fine del suo impero come i portoghesi in Angola e via dicendo. I talebani, movimento di resistenza, li hanno sottomessi. Oggi, i soldati dell’esercito afghano ma anche della Nato (compresi gli italiani a Herat) stanno chiusi nelle basi. Forse presidiano qualche zona nascondendo un blindato, ma le strade e il territorio, sono alla mercé dei più. Non c’è controllo. E la Nato non ammette la sconfitta. Non lo farà mai. Perché l’occidente non può perdere e quando lo fa, insabbia tutto per non distruggere il proprio orgoglio.

 

Ma torniamo al Salang. Costruito dai sovietici nel lontano 1964, una delle grandi opere che hanno avvicinato molto il governo afghano, allora ancora monarchico e Mosca. Parliamo degli anni antecedenti l’invasione del 1978/79, prima del colpo di stato di Daoud Khan che spodestò la monarchia di Zahir Shah, l’ultimo re d’Afghanistan poi esiliato in Italia. Questo passo, alto 3400 metri , è stata una rivoluzione per il paese, collegando in maniera nettamente più fluida il nord con il sud del paese e evitando di dover usare il Pakistan come collegamento. Insomma, di importanza epocale, come il Monte Bianco, il Frejus o, appunto, il San Gottardo. Prendo l’esempio del San Gottardo perché, pensando all’infrastruttura europea e svizzera, in confronto, qui, c’è da mettersi le mani nei capelli. Progettato per un transito di mille o duemila veicoli al giorno, oggi ne passano fra i 7 e i 10. Ma la manutenzione non è mai più stata fatta, anche se milioni sono stati stanziati negli anni. Per un momento, fu la “highway” più alta al mondo. Ma nel tunnel, senza ventilazione e asfalto, e una scarsa illuminazione, il rischio di morte è elevatissimo. È quindi considerata una delle strade più pericolose al mondo. Senza calcolare il rischio dovuto al conflitto. Dopo la partenza dei russi, nel 1989, nessuno si è più preoccupato di mantenerlo e durante la guerra civile, è stato bombardato apposta per non permettere ai veicoli di transitare ma solamente a piede. Ancora oggi, all’interno, un incavatura nella roccia ricorda un’esplosione ordinata da Massud. Mi chiedo prima come si facesse a viaggiare da nord a sud: 3 giorni di strada, diventati 10 ore. Ricordo che mia nonna raccontava sempre quando si passava il Gottardo prima dell’avvento della galleria autostradale di 17 chilometri. Era già di per sé un evento, che prendeva ore. Ma qui, penso che siamo a un altro livello.

 

L’Afghanistan è un paese che vive sul tetto del mondo. Molte montagne toccano i 6 mila metri di altezza, la regione del Pamir, nel nord-est, è fra le parti più altre dell’Hindu Kush, le montagne più alte al mondo. E anche il Salang ne fa parte. La gente è abituata a vivere fra le irte valli, impenetrabili, costruendo casupole di fango sul baratro di ripidi scoscesi. Alberi verdeggianti scorrono nelle vallate con i fiumi in piena, tutto in contrasto con la pietra di un marroncino un po’ più scuro delle rocce. È uno spettacolo. Invoglia a scendere, prendere una boccata d’aria, bere acqua dalla fonte.

 

Ma no, non si può. Sei matto? Nessuno deve sapere che sei straniero in queste zone. Troppo pericoloso. Non perché ti uccidono, ma, ancora una volta, possono avvisare qualcuno del tuo passaggio e può succedere di tutto. E ripeto, il rischio più grande non sono i talebani, ma il governo e i suoi servizi segreti. Terribili, spietati. Ti uccidono per il piacere di farlo. Ma la gente continua a pensare che loro siano loro i buoni, Un governo arrogante, corrotto, marcio e alla mercé degli Usa. Insomma, un vero proxy degli Usa. Sono troppo duro? Provare per credere signori.

 

Parlo del Salang perché dobbiamo attraversarlo per una missione. Una terra di nessuno. S. passa a prenderci alle 6.30 in punto con la macchina di Hazar, un vicinissimo del comandante Jalal. La missione è incontrarlo, intervistarlo e parlare con i suoi uomini armati.

 

Alt, chi è Jalal? Ex-mujahid della Jamiat-e-Islami di Rabbani e Massud, oggi ha 57 anni ma è da quando ne ha 16 che combatte. E combatte ancora oggi, nella provincia di Baghlan, proprio dall’altro lato del Salang, contro i Talebani. Un vicino dell’eroe Massud, di quell’uomo che lui stesso descrive come “normale, umile, vicino a tutti, che non voleva la violenza”. Sarà vero? Io ne ho sentite di tutti i colori. Ma pazienza. Jalal, nel 2004, ha perso 26 membri della sua famiglia dovuto a un’esplosione di un razzo sulla casa di famiglia. 14 feriti. Un massacro. Chi è stato? Nato? Governo? Lui dice che c’è stata un’informazione sbagliata. Forse la Nato, di mal informazioni ne hanno avute tantissime in Afghanistan visto che sono la maggior causa di morti civili nel paese. Un dato esilarante non pensate? Venuti per salvare o per uccidere?

 

Ma Jalal non combatte con l’esercito, bensì con una propria milizia…pagata dai servizi segreti. Lui lo dice ingenuamente, ma i servizi non ne sono molto felici. Ecco il rischio. “Perché non armare bene il nostro esercito invece di sparpagliare milizie ovunque per il paese?” mi diceva in tutta franchezza la deputata al parlamento per la provincia di Farah, Belqis Roshan, qualche mese fa. Insomma, una milizia pagata da un servizio segreto, quando hai un esercito in difficoltà, può solo avere un senso, mantenere un controllo parastatale, togliere potere allo stato e alle sue azione, compreso l’attuale accordo di pace, al quale, questi signori della guerra non partecipano sicuramente. E se Jalal, di mestiere fa il comandante e ha combattuto tutta la sua vita, pensate che sarà facile farlo smettere? È come una cassiera che viene licenziata a 60 anni. Potrà trovare un altro lavoro? Difficile abituarsi. La similitudine rende l’idea. Può essere gentile, affabile, educato e pacifico quanto si vuole, ma uno come Jalal non ha conosciuto altro che la jihad, la guerra, le esplosioni, i Kalashnikov. Strano, nevvero? Ebbene, gatta ci cova. Ma di questo ne parlo in un mio reportage pubblicato sul magazine Millenium (chi lo vuole me lo chieda e passerò pdf gratis per la buona informazione di tutti).  

 

Insomma, Jalal ci aspetta a Khinjan, il suo villaggio alle pendici del passo, dall’altro lato. Ci ha invitati da mesi ormai. Ma era la prima occasione per andarci. S. ha il timore che i servizi segreti ci facciano fuori perché andiamo a toccare una polveriera che nessuno, finora, ha osato sollevare. Ma per fare il giornalista, non serve andare nella capitale e mettere giù il culo dicendo: “Ave, sono in Afghanistan, great reporting, pericolo”. Bisogna muoversi, rischiare. Vuoi il terreno? Beh, comporta dei rischi sacrosanti ma anche soddisfazioni. Di tutte, quella più importante è la percezione della realtà che acquisisci, oltre a vedere come si vive nel vero Afghanistan fuori dai muri di cemento della capitale.

 

Io e Amanullah, il mio collega, saliamo sul veicolo di Hazar. Sono tranquillo. Di solito, l’istinto mi porta a sapere quando le cose si mettono male. Non sempre lo ascolto in maniera corretta, non conosco abbastanza bene il territorio per rendermi conto di tutto. Per fortuna che S. lo conosce troppo bene. Se lui è tranquillo, lo sono anche io. Ridiamo, scherziamo, come al solito. Ma mi fa capire con il suo sguardo che stiamo affrontando qualcosa di ignoto e molto rischioso. La giornata è limpida, le montagne si scorgono fino all’orizzonte. Da Kabul entriamo nella provincia di Parwan, costeggiando piantagioni verdi, alberi in fiore di primavera che si scontrano all’orizzonte con le montagne, il Salang, il nord del paese che si avvicinano sempre di più. Entriamo nel feudo dei Jamiati, i sostenitori di Massud anche perché questa è la strada che porta in Panjshir, la sua regione, famosa per la sua grande resistenza ai russi e poi a talebani. Questa piana di Parwan dove scorre la famosa Highway, è stata distrutta propri per le feroci battaglie che ha vissuto durante la guerra civile, l’arrivo dei talebani e l’invasone americana. Ha testimoniato le ultime battaglie prima che l’Alleanza del nord e gli americani prendessero Kabul pochi mesi dopo, mettendo in fuga i Talebani dell’ormai defunto Mullah Mohammed Omar.

 

Hazar dà il suo Pakol (il cappello tradizionale che si dice provenga dalle falangi macedoni di Alessandro Magno) a Amanullah, che con il giacchettino in pelle e il peran tomban (la camicia e i pantaloni tradizionali), si confonde fra gli afghani, finché seduto in macchina. Io lo stesso, ma senza pakol, mi metto il mio Patu sul capo, uno scialle di lana fine, che tiene molto caldo d’inverno e tipico afghano. Solo che, oltre a confondermi fra gli afghani, posso essere preso per un estremista. Di solito sono loro che li indossano così. Una volta un tassista, di notte, a Kabul mentre tornavo a casa, mi ha detto di abbassarmelo perché sembravo un “intihari”, un kamikaze, e la polizia mia avrebbe fermato e controllato. Chiaramente ridendo. Ormai si scherza sempre con tutto.

 

Alla fine della piana, entriamo nella valle tortuosa, piena di villaggi arroccati sulle montagne circostanti. È l’inizio dell’ascesa al Salang. Ma con l’inizio della valle, finisce anche l’asfalto. Cominciano le buche, la strada piena di sassi, il traffico di camion, camioncini e macchine che cercano di sfrecciare il più in fretta possibile in barba al codice “stradale”, passando sulla corsia inversa, sorpassando da destra e da sinistra contemporaneamente, usando il clacson come musica e sfiorando i venditori di cibarie e acqua che sono appostati nelle bancarelle colorate e illuminate al bordo della strada. Hazar mettere una canzone che suona cosÌ “Khodam dukhtar biari”, “portami una ragazza”. S., Amanullah e io ci divertiamo, balliamo un po’. Almeno per distendere la tensione. “Più si sale, più il paesaggio diventa spettacolare, segni di vita umana spariscono, ma la strada non migliora, anzi peggiora. Quando si intravvede la neve sulle montagne, cominciano anche i tunnel costruiti dai sovietici. Le gallerie semiaperte che proteggono la carreggiata dalle copiose nevicate invernali. Massi di cemento, con aperture d’aria che lasciano trapelare qualche raggio solare. Ma la polvere sollevata dalla strada sterrata, presente ovunque, diventa particolarmente insopportabile all’interno delle gallerie, che difficilmente espelle l’inquinamento. Siamo a quasi 4 mila metri. Il freddo si fa sempre più percettibile. Ma io tengo il finestrino aperto, un po’ per le foto, un po’ perché non respiro per via della polvere lasciata dalle colonne di TIR che salgono piano sulla strada sconnessa, piena di buche. Poi, finalmente, si arriva in cima, entrando dapprima in una galleria semi-aperta e poi, quasi impercettibilmente nel tunnel vero e proprio, che perfora l’Hindu Kush da sud a nord, lungo poco meno di 3km. Un parto. L’illuminazione scarseggia, la gente è ferma con l’auto in panne, i camion che si sorpassano intasando le due corsie che a a malapena fanno passare due macchine. La strada polverosa che ostruisce la vista a più di 30 metri. Un caos totale. “Sono morte delle persone. Quando ci sono incidenti, la gente non respira”. Valanghe e esplosioni, morti, sono sicuramente sulla fedina del passo. Eccerto, mica ci sono le scappatoie o gli impianti di aerazione che ci sono in Europa. Macché. “Oppure morivano di freddo, assiderati, perché bloccati dalla neve all’uscita” dice S. Non stiamo parlando di 3 secoli fa. Ma di qualche anno fa.

 

Usciamo finalmente dalla galleria, cominciando la discesa. Entriamo nella provincia di Baghlan. La strada fa sempre schifo. Il paesaggio è mozzafiato. Le montagne innevate, di quel marrone desertico. Differenti dalle Alpi, per questo tanto affascinanti. Al lato ricominciano le bancarelle con venditori che, per freddare le bibite, usano fontanelle di acqua pura della fonte. Poi, dopo chilometri di buche e rally, la strada migliora improvvisamente. Non ci credo. “Il freddo distrugge l’asfalto” dicono loro. Si, ok, ma questo asfalto non è mai stato rinnovato da quando lo hanno posto i sovietici. Ma ci torneremo.

 

Arriviamo a Khinjan, un villaggio ingrandito, incastonato fra le montagne di Baghlan. Il verde primaverile, le casette in fango, il mercato caotico con traffico e venditori di tutto ciò che ci si può immaginare, attorniato da colline che sembrano dune e infine, più in alto, le imponenti cime innevate. È qui che risiede il grande Jalal. Ci salutiamo cordialmente. Si ricorda di me. È un tipo serio. Gentile ma molto serio. Il viso è da combattente. Tarchiato, con i tratti in viso scavati dalla sofferenza della guerra. La sua casa, chiaramente dentro la tipica corte murata è su due piani, in fango tipico. Lo si nota perché ci sono dei filetti di paglia che sonno rimasti durante la posa. Ci porta al piano superiore, con una scala esterna. Entriamo nel salotto, il Dalaan. Il contrasto fra l’arido muro beige esterno e la pittura azzurra interna rende tutto ancora più accogliente. Spesso, se all’esterno le case sono monotone e sembrano semplici, all’interno cambia tutto. I cuscini candidi, azzurri e rosa, con a terra i toshak, tipici cuscini afghani allungati per sederci ma anche dormire. I salotti sono i posti riservati agli ospiti. Le donne non esistono, rimangono in disparte nei loro appartamenti. Difficile, nei villaggi, vederne alcune uscire se non con il chadori, il famoso burqa. In Afghanistan, gli ospiti sono sempre onnipresenti. È quasi un obbligo. Spesso dormono nei salotti quando invitati. Rimangono per giorni durante feste, matrimoni. E pretendono di essere serviti. E per l’oste, è un onore servirli. Avere un salotto grande è quasi un obbligo nella cultura.

Il salotto di Jalal è a forma di “L”. Ci installa nella seconda sala perpendicolare a quella dell’entrata. Ci mette a sedere. Molte finestre illuminano la sala, offrendo uno scorcio sul paesaggio magnifico. È un sogno. Uno spettacolo. Sono estasiato. Ma ancor di più di poter finalmente incontrare Jalal in casa sua e intervistare anche i suoi soldati. Sediamo a gambe incrociate. Non ci sono tavoli o sedie, solamente cuscini a terra. Comodissimi. Ma che ci crediate o no, è un vero esercizio di Yoga giornaliero che mi uccide le gambe e mi spezza le ginocchia. Io sono un pezzo di legno. Amanullah pure. Soffriamo. Cerco quindi di trovare posizioni confortevoli, per esempio tendendo una gamba incrociata e un’altra piegata verticalmente, nascondendo sempre i piedi. Funziona, lo fanno anche loro. Meglio di niente dopo 30 minuti di tortura. Soffro soprattutto quando si deve mangiare, per allungarsi e prendere il cibo. Provate e vedrete. Alla fine, tutto fa brodo e lo vedo come un esercizio di sport. Devo ammettere che in questo viaggio di lavoro, abbiamo aspettato e cazzeggiato fin troppo. A un certo punto, talmente annoiati, siamo andati a comprare dei tappeti. Come dice Amanullah, quando si lavora a soggetti sensibili, la maggior parte del tempo la si passa aspettando e bisogna saper cogliere i momenti di lavoro.

 

Jalal si siede, arriva il suo personale per portarci del tè con zafferano, squisito, insieme all’immancabile assortimento di mandorle, qeshmesh, le uvette seccate (che producono nel sud soprattutto, Kandahar, Farah, Helmand) e altre prelibatezze, che servono, come dice sempre mio padre a “spezzare la fame”. Sono più di 24 ore che non mangio. Ma perché ho mangiato troppo nei giorni precedenti e non ho molta fame. Ma il mio stomaco grida vendetta. Stoppo la sensazione fastidiosa, aprendo il guscio di qualche mandorla, ascoltando Jalal che racconta le sue storie e prendendo qualche appunto, mentre sorseggio il mio tè dalla tazza, che non appena si svuota, viene riempita da un ragazzo molto gentile, al quale tremano le mani quando prende il thermos e lo versa. Come succede a me ogni volta. Quindi non ci si abitua proprio a tenere il polso fermo. Dovevo venire fino a qui per scoprirlo. In effetti, vedendo gli usi e i costumi di varie popolazioni nel mondo, rimango spesso estasiato da come le persone siano abituate in maniera differente dalla nostra. È affascinante. Così, gli afghani crescono abituandosi a sedersi a gambe incrociate, a mangiare seduti con le mani, a fare le abluzioni prima della preghiera ovunque si trovino, anche nel lavandino dell’aeroporto. Cose che da noi sarebbero viste con sorpresa. Forse qui trovano divertente il fatto che noi mangiamo seduti al tavolo.

 

Jalal racconta le storie della sua vita, ma anche del perché lui e i suoi uomini abbiano preso le armi in questi ultimi anni e siano sostenuti dai servizi segreti. Racconta una storia: “Vedi, una donna tradiva il marito con un altro uomo. Un giorno, la donna invita l’amante a casa sua ma il marito lo scopre e lo attacca, gridando al vicinato che quest’uomo cerca di portargli via la moglie. Allora la moglie grida al villaggio, dicendo a tutti che il marito non è nemmeno capace di tenersi stretta la moglie e di farci l’amore, chiedendo aiuto agli altri per picchiarlo. Questo, in sostanza, è il governo afghano. Ecco perché noi esistiamo”. Chiaramente fa morire dal ridere, un esempio del genere raccontato da un mujahid in persona, che ha combattuto tutta la sua vita per difendere i suoi valori e le sue idee.  Una Discussione interessante. Ma abbiamo poco tempo. S. non si sente in sicurezza quando arriviamo. Il piano iniziale è fermarsi a dormire, ma lo vedo poco convinto. Vuole tornare a Kabul già la sera stessa. “Non dite che torniamo a Kabul, dite che continuiamo per Mazar-i-Sharif a tutti, così non destiamo sospetti”. Il piano è questo. La conversazione si protrae per le lunghe. Dopo un’ora di discussioni, chiedo l’intervista video, che Jalal mi concede, un po’ imbarazzato. Non ne ha mai fatta una sembra, non sa come comportarsi. Sul suo viso si vede l’emozione, anche se solitamente è inespressivo. Gli attacco un microfono alla giacca e lo inquadro con la macchina fotografica, mettendo a fuoco il suo viso. Porta un pakol, un peran tomban azzurro e una giacca elegante. Barbetta incolta, naso appuntito. Una faccia da combattente perfetta. Un vero afghano delle montagne. Parla poco, ma fa tanto. Sbaglio completamente la location dell’intervista. Ma fa niente. Dovevo metterlo di fianco alla finestra. Ma è tardi. Racconta le sue idee, la sua vita, i suoi incontri con Massud. Molto interessante. Seduto a terra tenendo la telecamera in mano, non ne posso più, mi fa male tutto. Dopo 40 minuti, finiamo. È l’ora del cibo, non possiamo saltarlo. Prelibato. Ha sgozzato un montone appositamente per noi. Solo per noi, perché siamo “ospiti speciali”. Potrà sembrare irrilevante, ma nella cultura afghana ha molta importanza. Fermarsi a pranzo cambia le cose. Bere il tè dopo, garantisce il rispetto dei tuoi interlocutori. È una struttura sociale impressionante. Ho fatto anche le mie figuracce, lo ammetto. Qualche giorno prima. Dopo un’intervista con un consigliere provinciale di Herat, Kamran Alizai, un tipetto simpatico, accusato di traffico di droga, armi, e che, guarda caso, anche lui possiede una milizia personale, ci ha invitati a pranzo. Io, non curante delle norme sociali, ho guardato il mio orologio e ho detto a S., “mah, perché no, sono le 11 aspettiamo” e S. si è imbarazzato. Il tipo è uscito dalla sala facendo finta di niente. S. ha riso dicendo che lo ha fatto solo perché è la consuetudine. “Ma io avevo fame” gli rispondo. Abbiamo riso come matti.

“Ci rispettano molto” dice S. dopo il pranzo. Ora possiamo chiedere qualsiasi cosa. Vogliamo lavorare chiaramente. Ma nel frattempo arriva un tipo che a S. non piace. Questo è dei servizi, ne sono certo. Per fortuna ha sentito solamente la fine dell’intervista. Allora comincio a fare domande su Massud, sui valori, sulla guerra. Roba interessante che arricchisce il reportage, ma serve anche per sviare il discorso da quello delle milizie, sul fatto che i servizi paghino dei civili armati per combattere e che questo potrebbe rendere la pace affare ancor più difficile. Nel patio della casa intanto, si riuniscono decine di combattenti. Civili in armi. Ma non pellegrini. Armati fino ai denti con mitragliatori, lanciarazzi, gli immancabili Kalashnikov. “Afghans love kalashnikov” diceva una guida di un “museo della Jihad” di Herat. In effetti, ci sono più kalashnikov in Afghanistan che persone.

 

Non abbiamo più molto tempo. Sono già le 14. Vogliamo parlare ai soldati e ad alcuni civili se possibile. Ma la situazione di insicurezza non lo permette molto. Inoltre, non appena mettiamo fuori il naso, tutta la cittadina saprà che ci sono due stranieri. Finalmente, dopo il tè, S. riesce a sbloccare la situazione. Si alzano tutti e usciamo. Nel cortile è pieno di miliziani, si mettono in fila davanti ai leader. Si fanno fotografare, ma sono in posa. Chiediamo quindi a Jalal di portarci in giro, di mostrarci il territorio. Saliamo in macchina, ci seguono dei soldati e Jalal ci porta fino all’entrata della valle dove c’è ancora il suo villaggio, non distante da Khinjan, spiegandoci dove, negli anni della jihad, si combatteva contro russi e talebani. Il paesaggio è fiabesco. Montagne innevate, il sole che riscalda il vento della valle, il terreno fertile e verdeggiante con le case marroncino. A terra, si vedono ancora le protezioni usate dai talebani scavate nella terra. Sono i colori del tardo pomeriggio a rendere tutto ancora più bello. La gente si avvicina, la popolazione è incuriosita dal numero di soldati arrivati, dal leader della comunità Jalal che accompagna due giornalisti stranieri a vedere un territorio ormai dimenticato da molti.

 

“Dobbiamo andare via veloce”, dice S., non si sente in sicurezza e non è un buon segno. Allora cominciamo subito a preparare il viaggio di ritorno. Jalal, insiste perché restiamo la notte. Ci rimane quasi male. Ma lui sa tutto e comprende veloce le nostre necessità. Intervisto ancora un paio di soldati mentre Amanullah scatta foto. È deciso Jalal ci accompagnerà a Kabul. L’ospitalità, in questo paese non ha limiti. Un comandante che per proteggerci, è pronto ad accompagnarci. Succede solo qui. Infatti, prepara un sacchetto di plastica con dentro due indumenti ed è pronto a partire. Dobbiamo rubare tutto ciò che possiamo, non c’è tempo per discutere o pensare. Solo fare quello che si può e ripartire. Peccato, sarei rimasto di più a discutere ma S. decide per noi. È lui il nostro responsabile e non voglio metterlo in difficoltà. È un fratello per me, e non mi piace disobbedire ai suoi ordini. Soprattutto perché, almeno in Afghanistan, sono iscritto con il suo media all’albo dei lavoratori, il che significa che sono un suo impiegato. E me lo ricorda sempre, con la sua immancabile gentilezza e ridacchiando. Insomma, c’è grande complicità fra me e lui. E sono contento che anche Amanullah, ci vada molto d’accordo. Passiamo dei momenti molto piacevoli insieme. Anche se il povero S. deve sorbirsi tutte le nostre lamentele, le nostre richieste sempre al limite del possibile. I giornalisti sono dei rompi palle. Dopo i tassisti e i politici, sono il peggio si dice.

 

E così, con una persona in più, riprendiamo la strada per la capitale, attaccando nuovamente il Salang dal lato opposto. Ma nel frattempo, il meteo è peggiorato. Il cielo si è riempito di nuvole minacciose, che in cima a un passo di montagna, a più di 4 mila metri, significa bufera di neve. Arrivati in cima, dove la strada ritorna ad essere terribile e i camion intasano il cammino, passiamo di fianco al posto di blocco dei servizi segreti. Non controllano. S. tira un sospiro di sollievo. Il rischio più grande che già avevamo calcolato a settembre, era proprio questo, essere uccisi da loro, dando la colpa ai talebani. Troppo facile.

 

Risaliamo, il veicolo di Hazar passa tra camion e macchine, risalendo le curve del passo. Conosce ogni cunetta, ogni buca, facendo zig-zag nei 10 metri di corsia. Più l’altitudine aumenta, più le nuvole apparse improvvisamente si avvicinano. Sembra quasi di toccare il cielo. Come quando si passano le nuvole in aereo. Poi, d’un tratto, la nebbia, comincia il nevischio, che imbratta il terreno già fangoso e attorniato da massi di neve alti metri. Entriamo nella prima galleria semi-aperta. Il fumo e la polvere emanata dai TIR è talmente folta che non si vede nulla. Un TIR con un rimorchio pieno di carburante, ne perde a litri dal retro, ma non si ferma. Quanta benzina arriverà a destinazione? Amanullah guarda, mentre lo sorpassiamo, ridendo: “sta pure fumando l’autista”. Il rischio di esplosione è elevatissimo. E se esplodesse in galleria? Poi, dopo qualche chilometro, tutti fermi. Un incidente fra due camion nel mezzo della galleria. Ecco il rischio. Tutto bloccato. Sono le 5.30, la notte sta calando, abbiamo ancora 4 ore di viaggio davanti a noi. Non è per niente sicuro viaggiare al buio. Nevica, e presto sarà difficile scendere. Jalal chiama subito qualcuno, che gestisce il passo, per venire in soccorso e sbloccare in fretta la strada. La gente, come al solito impaziente e che non sa aspettare in coda, passa davanti, intasando le corsie. Dal camion di fronte a noi, belano le capre. È surreale. Che vita fanno queste persone. In particolare, i camionisti, che attraversano queste strade pericolose regolarmente, mettendo a repentaglio la propria vita. Essere in macchina con Jalal però, è molto interessante. Nel frattempo, Amanullah sta male. Ha mangiato qualcosa che non va bene. È in pena. E in un certo senso lo siamo anche noi.

 

Jalal, mentre avanziamo, racconta le storie della guerra. Dice che ogni 50 metri del passo gli ricordano momenti vissuti durante i combattimenti contro i talebani o i russi. Poi cambia il discorso e parla di quanto la corruzione abbia prevenuto la ricostruzione la manutenzione della careggiata del passo. “Gli americani hanno stanziato decine di milioni, spariti completamente, una parte ritornata a loro una parte se la sono mangiata la corruzione. Oppure compagnie straniere che hanno preso appalti milionari subappaltandola ad altre compagnie sempre straniere fino a che i soldi sono spariti. Vedete? Gli americani e altri 50 paesi sono venuti qui per portare il benessere e guardate come siamo ridotti”. È onesto. È una verità ineluttabile con la quale bisogna fare i conti. Uno scandalo di dimensioni galattiche. Il passo del Salang è una strada di importanza non strategica, ma più che strategica. Dove gli americani e la Nato, ci trasportano pure il carburante e altri rifornimenti dalle loro basi in Uzbekistan. Non ha molto senso.  

 

La mia preoccupazione più grande è la neve. Se rimaniamo fermi troppo tempo nella galleria, il rischio è che la neve blocchi il traffico completamente. Ci sarà sempre quello che si mette di traverso alla “Evergreen”. Per fortuna, ci muoviamo giusto in tempo. La neve non riesce ad attaccare abbastanza da impensierire agli afghani, ormai abituati, e che riescono ad evitare le buche imbiancate. Cominciamo la discesa verso Parwan, Charikar e poi Kabul. Più scendiamo più diventa notte. In tre seduti nei sedili dietro, a furia di prendere colpi al sedere e alla testa, un po’ ridiamo, un po’ sogniamo l’arrivo dell’asfalto. Siamo stanchi, i nervi ci hanno fatto a pezzi. Quando finalmente scendiamo a valle, ormai si vedono solo le luci delle abitazioni arroccate sulla sponda della valle, a volte dall’altro lato del fiume -che attraversa la vallata scendendo dal Salang- e collegati da un ponticello. Un paesaggio bucolico, alpino, per quanto differente. La gente ci vive ancora, legati alla loro terra come pochi al mondo.

 

Verso le 8 di sera, ci fermiamo a lavare l’auto, imbrattata di polvere e fango. “Altrimenti la polizia ci controllerà molto, daremmo nell’occhio” dice S.. Amanullah sta sempre peggio. Gli do qualche pastiglia che mi sonno portato dietro nell’evenienza. Ma non sembrano alleviare le sue pene. S. e io facciamo cambio posto. Mi siedo in mezzo, così da lasciarlo dormire un po’. Ma Jalal racconta le sue storie del jihad e vuole che lui traduca. È stanco e mi guarda sconcertato, ma non può dire di no al comandante. Penso odiasse me. Quando passiamo in un determinato luogo, rievoca storie passate di battaglie epiche contro i Talebani, di Massud, di come, senza di lui e altri comandanti, la linea del fronte si spostasse sempre più minacciosa verso nord, ricordando di un esercito di talebani anziani e vestiti di bianco pronti a morire e combattere. Una fede impressionante se ci si pensa bene. Chi, se non un devoto fedelissimo, sarebbe pronto a morire vestendosi di bianco e buttandosi nella bolgia attaccando un gruppo di nemici appostato sulle cime delle montagne? Dopotutto, ogni afghano ha combattuto la sua battaglia, pronto a tutto per difendere il suo territorio.

 

Quando raggiungiamo Qarabagh, attorniato dall’illuminazione potente e irritante della base di Bagram, S. dice che questo è un luogo pericoloso. Ma niente succede. Entriamo a Kabul senza problemi. “Kush amadid”, “benvenuti” dice infine Hazar, grande autista che ci ha condotti in un territorio impervio e pericoloso. Jalal, partito da casa sua inaspettatamente, si mette la sua sciarpa bianca e nera intorno alla faccia per affrontare il freddo, coprendosi il pakol grigiastro. Ci accompagnano fino a casa, salutandoci con un abbraccio di rispetto.

 

Sono sorpreso, sempre di più, dal livello di ospitalità degli afghani. Di qualsiasi schieramento. Miliziani dell’Isis, talebani, milizie di ogni genere. Se sei ospite, sei sacro. Punto. Non ti tradiamo. Sei sotto la nostra responsabilità. Sono codici tramandati in secoli. Anche gli inglesi, nel XIX secolo, erano stati accolti con grande ospitalità. Non significa che si dica sempre di sì, ma che sei protetto. E se esageri, allora da ospitali, gli afghani si trasformano in belve. Se non li rispetti e non rispetti la loro cultura, diventano molto pericolosi. Ma ce ne vuole. E gli inglesi nel XIX come l’occupazione nato oggi, sono riusciti a inimicarsi una popolazione intera, che all’inizio li aveva accolti con rispetto. Chiunque, in Afghanistan, è stato offeso, tradito, o danneggiato da quest’invasione che oggi viene ancora dipinta come necessaria e essenziale dai media, ma che in verità è forse la principale fonte di discordia che non permette all’Afghanistan di ripartire.