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Ancora al fronte, maledetta trincea

 

Faccio il bucato dei miei vestiti sudici e puzzolenti nel lavandino, usando il sapone che offrono nell’hotel. Facciamo tutti così da ormai quasi due settimane. Le macchine da lavare non funzionano. Ho viaggiato leggero, portando due pantaloni, 3 mutande, 3 magliette e due felpe. Fare il bucato a mano è una cosa che facevo sempre in Africa. Mi diverte, ma prende un sacco di tempo, che in questa circostanza non ho. In più mi spacca la schiena.

Finito di lavare, scendo al ristorante per bere qualcosa una ventina di minuti. Sono le 10 di sera. “Buonanotte a tutti”, dico al tavolo di locali riunitisi per festeggiare il compleanno di Gabriel, un collega giornalista. È venerdì sera. Sul tavolo girano bottiglie di Coca cola, whiskey e migliaia di sigarette. Forse le uniche cose che non mancano del tutto. Fumano tutti come dei “turchi” (se mi è concessa questa frase in questo momento). Salgo le scale. Oggi mi sono anche trasferito in un nuovo hotel, a poca distanza, più piccolo, familiare e meno caro. Tutto in legno e pietra. Sembra essere un vecchio edificio rinnovato e molto accogliente. Durante la stagione turistica sicuramente è pieno di persone che visitano le bellissime montagne caucasiche. Ora è stra colmo di rifugiati nei sotterranei e alcuni giornalisti.

Mi infilo nel letto più o meno alle 11.30 di sera. Sono esausto. 10 giorni di lavoro ininterrotto, senza pausa. Non è un problema insormontabile. Ma le condizioni sono difficili: si dorme male e poco, si mangia poco e male. Ma bisogna sempre essere al top delle energie, pronti a filmare, fotografare, intervistare. La guerra non ha sosta. Nemmeno di notte. È questa la cosa dura. Mi ricordo quando nell’esercito un capitano lo diceva “si lavora in tutte le condizioni” e mi dicevo: “mannaggia, questi ci fanno a pezzi”. Pioggia, neve, freddo, caldo. Non importa. Non hai un momento per mettere giù la penna e riflettere. Non puoi. Perché appena finisci una cosa, devi già organizzarne un’altra.

La giornata di venerdì è stata dura, piena e complicata. Siamo andati sulla linea del fronte. Le emozioni che si vivono in una zona di conflitto consumano le energie del corpo alla velocità con la quale una Maserati consuma un pieno di benzina. In un nonnulla.

Mi addormento quindi finendo le ultime pagine di un libro sull’Asia centrale scritto da una giornalista norvegese e rispondendo ai messaggi WhatsApp arretrati. Non ho nemmeno il tempo di rispondere. Mi sento un maleducato.

Io e Alex, il fotografo inglese, spegniamo la luce e dormiamo. Improvvisamente, tre bombardamenti vicini rompono il mio sonno pacifico. Alex grida: “Sirene!”, “Fanculo” – penso, tirandomi giù dal letto, prendendo i pantaloni alla rinfusa sulla sedia, ancora al buio e mezzo assonnato. Dobbiamo correre nei rifugi. Non possiamo accendere la luce, ma nel panico Alex accende la sua. Se i droni la vedono siamo un possibile bersaglio. Mi infilo i pantaloni velocemente, metto le scarpe. Nel frattempo la guardia ci chiama dicendo: “veloci!, scendete”. Corriamo di sotto. Le finestre sono coperte dai sacchi di sabbia per evitare che le schegge di vetro penetrino violentemente ferendo o uccidendo qualcuno. Sono ancora frastornato. Guardo l’ora sul telefono, sono le 4 del mattino. È l’unica cosa che mi sono portato di sotto. Errore gravissimo. Avrei dovuto preparare uno zaino d’emergenza per essere pronto a fuggire, mettendo dentro un sacco a pelo, qualche mutanda, e il materiale di lavoro. I bombardamenti proseguono per un po’. Poi le sirene smettono di gridare. Torniamo in camera. Mi riaddormento. Non passano però 15 minuti, che le sirene suonano ancora. Di nuovo, corriamo di sotto. Questa volta senza accendere le luci. Il rumore fastidioso e intimidatorio delle sirene prosegue per minuti infiniti. Infine, baaam, baaam, baaam. Le bombe cadono a cadenza regolare. Amanda dice che gli armeni hanno appena colpito Ganja, la seconda città più grande dell’Azerbaijan vicino alla linea. Forse è una rappresaglia azera. Apriamo la porta finestra di sotto, ricoperta di nastro adesivo per tenere i vetri protetti. Entra il freddo. Ma così il rischio diminuisce. Ci nascondiamo nelle stanze di fianco. Voglio tornare in camera per prendere una giacca, sono sceso in maglietta nella foga. Corro di sopra mentre i bombardamenti continuano. Mi tremano le gambe, lo ammetto. Sono solo, al buio. Un’esplosione potrebbe colpirmi. Devo prendere il mio sacco pelo e una giacca. Torno di sotto correndo. Lo srotolo, indosso la giacca e mi ci infilo dentro. Una guardia mi porge un materassino. Mi addormento mettendo la testa su alcune giacche che fanno da cuscino. Le sirene smettono di suonare. Mi risveglio alle 8, con la luce del sole che penetra dai sacchi di sabbia. Mi alzo e torno in camera, riaddormentandomi e sperano che le sirene non mi facciano alzare ancora una volta. Meno male che era il mio giorno di riposo. E soprattutto che domani sarà la festa dell’indipendenza azera. Ci sarà da divertirsi.

Ma è al fronte che gli scontri sono i più violenti. Il caldo, per nulla autunnale, e il sole, non fanno sembrare Stepanakert, Martakert, Martuni o altre zone vicino al fronte, vere e proprie zone di conflitto. Tuttavia, i rumori dei cannoni distruggono ogni speranza. La guerra continua. Gli armeni, anche se non lo dicono, stanno subendo ingenti perdite e ogni giorno intere aree del loro territorio cadono sotto il controllo azero. Le vittime, secondo le stime, sono però molto di più in Azerbaijan. Confusione totale. Si vede che l’Unione sovietica è ancora presente nella mentalità dei due paesi.

Come detto, in questi giorni il lavoro è ai massimi livelli. Sono talmente oberato che mi dimentico i miei effetti personali in giro, ma anche quello che devo fare. A volte, durante le interviste mi dimentico le domande o esco senza le schede memoria per fotografare. Non va bene.

Vorrei andare a correre, lo ammetto. Per scaricare la tensione. All’Hotel Armenia hanno una palestra. Forse funziona. Ma probabile di no. L’energia e il gas sono stati centellinati. Anzi il gas è stato proprio tagliato per evitare catastrofi con i bombardamenti.

 

Ieri mattina siamo riusciti ad arrivare alla linea del fronte, finalmente. Dopo tanto logorio chiacchiere e guide che mentono, grazie a un contatto del ministero della difesa che ci ha spalancato le porte, siamo riusciti a partire e vedere le prime linee. Io Emanuele insieme ad Amanda. Io e Emanuele volevamo le foto da pubblicare in Italia insieme alle storie scritte da me.

 

Dopo aver raccolto testimonianze di civili nascosti nei bunker, la vera storia è capire come la guerra proceda. Cosa pressoché impossibile con l’accesso reso estremamente difficile dalle autorità armene. Per accesso intendo poter fotografare e intervistare i soldati, vedere le linee del fronte. Capire qualcosa di come sia combattuta questa guerra e non solo sentire il rumore degli spari dei droni o dei cannoni in lontananza. Ancora non si capisce chi controlli cosa. Quanto gli azeri siano effettivamente penetrati nel territorio. Hanno conquistato varie zone. Questo è un dato di fatto. Zone chiaramente perse per sempre dalle forze del Nagorno Karabakh. Intere famiglie che hanno terreni, case oppure progetti. Tutto svanito nel nulla. Non le vedranno mai più. Ogni giorno bus interi partono stracolmi di civili che lasciano i loro averi e le loro case per sempre forse. Si rifugiano in Armenia dove proveranno a rifarsi una vita. È molto triste vedere tutto questo. Ma bisogna pensare che la guerra è ingiusta per tutti. È ingiusta per i civili ma anche per i soldati, vittime della politica dei potenti che mandano al macello ventenni per i propri interessi. Un’assurdità. Come i confini. La più grande violenza e il più grande crimine contro l’umanità. Stigmatizzazione pura attraverso una stupida linea che non ha il minimo senso fra Svizzera e Italia come fra Armenia e Azerbaijan.

 

Per accedere al fronte però, bisogna conoscere il responsabile del ministero della difesa. Si chiama Suran. Mi dà appuntamento alle 6 di sera di giovedì. Sono le 2 del pomeriggio. Ho tempo di andare a mangiare qualcosa in un ristorante gestito da un siriano di origini armene, l’unico ancora aperto in città.  Gli armeni sono come gli ebrei, hanno una diaspora gigantesca all’estero. In Armenia ci vivono 3 milioni di persone mentre all’estero se ne calcolano 7. Hovid e Isabel, due siriani di origine armena tornati qui per vivere -ironicamente scappando dalla guerra civile che imperversava ad Aleppo- hanno deciso di tenere aperto il loro fast-food chiamato Samra. “Facciamo cibo gratis per un centinaio di persone” dice Hovid, aggiungendo che da qui non se ne andrà mai e sarà la sua tomba. Cercano di dare a tutti una zuppa e un po’ di riso. In generale non si mangia molto. Passo giornate senza toccare cibo. Ma l’adrenalina e lo stress tengono il mio stomaco a bada controllando l’appetito. Se bisogna lavorare negli orari sbagliati, non si mangia. Non c’è storia. Molti ristoranti sono diventati bunker militari, le finestre riempite di sacchi di sabbia per proteggersi dai vetri e dagli attacchi.

 

Alle 6.05, sono nell’ufficio di Suran. È un bunker. Lo trovo accidentalmente, dopo aver ricevuto indicazioni poco precise da Amanda. Mi fiondo da lui, dicendogli chi sono, cosa faccio, per chi lavoro. Rendo le cose più complicare di quanto siano davvero. Insomma, Suran ha già capito tutto. “Filippo, l’accesso alla linea è possibile. Ma non domani”. “Quando allora?” insisto. La gente ha paura di insistere. In Svizzera, insistere è visto come una cosa maleducata. Ma se non insisti, in questo lavoro non ottieni nulla. “Perfetto, dico, allora se non sarà per venerdì sarà per sabato, ma teniamoci aggiornati stasera” rispondo. Faccio una battuta. Ride e poi ci congediamo. So che ce la faremo per venerdì, a costo di saltare sulla navetta di Amanda all’ultimo. Amanda ha una relazione speciale con lui. Non pensiamo male, per carità. Ma lui è sicuramente attirato da lei. Bionda, alta, irlandese. Le manda i cuoricini per messaggio. Lei è imbarazzata ma sta al gioco. Sembra che gli armeni siano un po’ come gli arabi. Vedono le bionde e impazziscono. Ma forse è anche perché in guerra, le donne si rarefanno. Insomma, a noi va bene così.

La sera, Amanda dice che venerdì mattina abbiamo l’accesso alla linea. Io e Emanuele andiamo a trovarla. È in camera con i giornalisti del quotidiano francese Le Monde, a bere del vino. Laurent Van Der StockRemy Ourdan, due grandi reporter di guerra. Fa strano bere con loro, ascoltando le loro storie. Siamo tutti uguali alla fine. Solo che loro hanno decenni di esperienza in più. Laurent è stato ferito ben tre volte. Hanno seguito tutti i conflitti dalla Jugoslavia fino ad oggi. Prima di tornare al nostro hotel, confermiamo ad Amanda l’appuntamento delle 7.30 del mattino di venerdì al suo hotel, pronti per andare. Andare in giro di notte, al buio, in una zona di guerra, è pericoloso. I soldati possono essere ubriachi. Ci sono inoltre voci di alcuni azeri che sono penetrati in città. Ci fermano dei soldati, controllando i nostri accrediti.

 

Andare alla linea del fronte è stato un punto molto sensibile per ogni giornalista che ha coperto questo conflitto finora. Molti non ci sono riusciti. Ecco perché è meglio non divulgare troppo la notizia. Avere un accesso del genere può suscitare gelosie. Fra giornalisti si crea una certa competizione. Chi arriva prima alla storia, chi accede prima alla linea del fronte. Ognuno non parla con l’altro. È come giocare a scacchi. Non sai mai la mossa dell’altro e devi essere più furbo, muovendo il cavallo nella direzione giusta prima di essere mangiato. In una zona di conflitto specialmente. Questa è una grande fonte di stress, la quale, aggiunta a allo stress della guerra in generale, ti drena ancor più velocemente.

 

Ci presentiamo nell’ufficio di Suran alle 8 del mattino in punto. “Dovete aspettare” ci dice. Ormai, siamo abituati ad attendere per ore senza che niente accada. Verso le 10 le cose si sbloccano. “Andate con lui” indicando la nostra guida. Non sappiamo il suo nome, non vuole essere riconosciuto. Saliamo sul furgoncino. Giubbotti antiproiettile e elmetto pronti. “Non fotografate niente se non ve lo dico io” dice. Onestamente mi girano le scatole, ma capisco il loro timore di dare al nemico punti di riferimento. Il furgone attraversa il villaggio di Askeran. Ha ancora un caravanserraglio o fortezza ottomana ben conservato. Askeran è considerata un confine naturale

 fra l’alto e il basso Karabagh. Le montagne lasciano spazio alla pianura che sti staglia fino all’orizzonte, lasciando intravvedere l’Azerbaijan. Il basso Karabagh ha terreni fertili. Ci sono campi coltivati, vigneti, piantagioni. Ci si avvicina alla cittadina di Akna, per anni un importante centro commerciale e ricco. Ma Akna è anche tristemente conosciuta come la “Hirosihima del Caucaso”. Oggi non restano che le rovine della città, rasa al suolo completamente durante la prima guerra fra armeni e azeri negli anni ’90. Si possono vedere -mentre il furgone attraversa le strade sterrate cittadine, ormai abbandonate da decenni- i fasti degli edifici antichi, una moschea diroccata che doveva essere meravigliosa e oggi divenuta base militare. Akna è una città fantasma, rimangono solo le pietre. Era un centro popolato maggiormente da azeri prima che il conflitto iniziasse alla fine degli anni ’80. È stata rasa al suolo. Oggi solo le macerie parlano. Akna sorge vicinissimo alla linea di contatto, che inizia subito dopo. Ormai pochi chilometri ci separano dalle forze azere. Ma in mezzo ci sono campi minati.

 

Più ci avviciniamo più penetriamo in trincee vere e proprie. Le strade percorribili da veicoli si dividono in piccoli canaletti per i soldati. I cumuli di terra che attorniano le strade non permettono più di avere dei punti di riferimento. Siamo tornati a Verdun, Caporetto. Alle grandi battaglie della Prima guerra mondiale. Alcune scale portano nei sotterranei, centri di comando, magazzini oppure dormitori. Al fianco dei cumuli di terra, ci sono postazioni scavate nella terra dove i soldati possono nascondersi. I camion sono nascosti nella terra. Lasciamo il furgone a un chilometro dalle forze azere. È una guerra di trincea vera e propria.

 

Siamo sulla prima linea. Dopo di noi, le mine. L’artiglieria potrebbe attaccare da un momento all’altro con mortai o cannonate. Ma sembra tutto molto tranquillo. Questa è la zona centrale del fronte. Gli scontri più violenti continuano a sud, dove gli azeri stanno penetrando senza essere contrastati, o al nord, dove le forze di Baku hanno fatto una breccia più piccola. Il presidente azero Aliev ha assicurato che arriveranno a Shushi, la città più colpita durante la prima guerra e simbolo per le forze azere, non lontano da Stepanakert. Spaventa questo fatto, perché fanno sul serio e sicuramente hanno i mezzi per farcela.

 

Le trincee sono incredibili. Il terreno, scavato a forma di V, lascia un piccolo passaggio di cemento per permettere ai soldati di correre più agevolmente. Quando piove, sicuramente la situazione deve essere ben differente, facendo diventare la trincea un inferno fangoso. Ai lati, sono posti decine di barattoli in latta, per segnalare l’entrata del nemico, come spiega un comandante. Il filo spinato e i sentieri si estendono insieme diramandosi all’infinito. Facile perdersi. Chiedo al comandante se posso andare avanti a vedere come continua la linea. Dice di sì. Filmo e cammino, scomparendo dietro una curva. Sento dietro di me un soldato che mi rincorre. “Torna indietro, ci sono i cecchini” dice. Ridiamo insieme. Tutto è calmo. Penso fosse spaventato che fotografassi postazioni sensibili. I soldati escono dai rifugi e dalle postazioni per salutarci. La loro postazione sembra essere abbastanza confortevole per essere una trincea. Una piccola casetta bassa, con 4 letti uno di fianco all’altro. Letti… sono materassi su un’asse di legno. Il tetto è basso. Di fianco tutti i fucili sono pronti all’uso. Hanno un piccolo computer e un telefono per comunicare con le altre linee. Il telefono squilla spesso. Nell’altra sala hanno zaini, lanciarazzi e mitragliatori. Di fianco, c’è una piccola cucina, dove una pentola e un fornello a gas sono tutto quello che serve per cucinare il cibo in scatola per i soldati. Pane e cereali con un po’ di “vellutata” di verdure. Ci invitano a pranzare con loro. I ragazzi hanno tutti fra i 18 e i 20 anni. “Sono i veri eroi” dice il comandante. Giovani, sorridenti ma spaventati. Sono tesi e i loro visi non lo nascondono. Non parlano molto. E la comunicazione è complicata. Dico a uno di loro di fare uno scambio: lui mi potrebbe dare il suo “patch” raffigurante l’emblema dell’esercito in cambio del mio con scritto “press”. È felice, se ne ricorderà. Pariamo con i soldati, chiediamo come vadano le cose. Non si vogliono sbilanciare troppo, ma sembrano molto motivati. La frase, come al solito è: “Siamo pronti a morire”. Ma hanno progetti per il futuro, chi vuole fare il cuoco, chi giocare a calcio o chi vuole suonare il clarinetto. Un ragazzo dice che la prima cosa che farà appena tornerà a casa, sarà comprare dei fiori per sua madre. Fa tenerezza. Ma la guerra ancora non è finita.

 

L’immagine più suggestiva è il monastero di Gandzasor, situato in cima a una collina che sovrasta i il villaggio di Vank, non lontano da Stepanakert e attorniato da vallate ricoperte di alberi colorati di autunno.  Il monastero risale al 13esimo secolo, con incisioni in armeno antico. “Se non parliamo noi, parlerebbero i nostri sassi” dice uno dei preti in pellegrinaggio da Yerevan, indicando le incisioni sulla pietra. Il monastero è bellissimo. Al suo interno, la pietra è annerita dai secoli e trasuda storia. Un sacerdote prega, cantando. È solo. Sembra quasi di essere in un eremo. In lontananza però, tuonano i cannoni senza sosta rovinando il paesaggio suggestivo. Sono lontani. Ad almeno 30 chilometri di distanza. Sulla via del ritorno ci oltrepassano camion stracolmi di soldati. Vanno tutti al fronte. Nella piccola regione, si vive ormai per difendersi.

 

Al momento in cui scrivo bombardano Stepanakert e dintorni. La guerra non finisce. I morti aumentano. Il lavoro si fa interessante. Ma questo significa che la situazione si fa via via più tragica.