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12. RCA ... Rien ne va plus!

Mi piace pensare alla missione di un giornalista sul campo come una partita di calcio o un match di hockey. Gli allenatori, sebbene perdano 3-1 al 91esimo minuto o a due secondi dalla terza sirena, mettono in campo lo schema del “tutto o niente”. NO REGRETS, ALL IN, direbbero gli americani. Tanto che hai da perdere? Ormai la situazione è compromessa. Così fa un generale come ultima ratio in una battaglia ormai perduta e così, sebbene non si veda in maniera tanto nitida, fa anche un giornalista alla caccia di storie.

 

Personalmente, mi sono trovato moltissime volte in situazioni difficili. Non perché a rischio, o in pericolo (oddio, ci sono anche quelle). Bensì, perché impossibilitato da fattori più grandi di me a trovare la via giusta per accedere alle storie che voglio fare. E come per magia, ogni volta che mi sono trovato sul filo del rasoio fra il “è finita, andiamo a casa” e quella sensazione di vittoria per aver ottenuto un permesso o quella chiamata che cambia tutto, sono quasi sempre riuscito a ribaltare la situazione a mio favore. È la capacità di non mollare mai. Come in un’ultramaratona. È proprio dal 60esimo chilometri di una gara di 100 che il gioco si fa duro e si entra nel momento clou. Troppo facile altrimenti.

 

Il reportage, per un giornalista, è spesso paragonabile ad un’ultramaratona. E qui, in Repubblica Centrafricana, mi sono trovato ad affrontare la mia tappa più difficile. Ora, nel momento in cui scrivo, sembra proprio che i crampi, le vesciche, i dolori al tendine siano divenuti insopportabili per continuare. I segnali che mi manda il corpo sembrano dirmi che la via del ritiro è quella giusta, che è ora di suonare la ritirata prima di incassare una sonora sconfitta irreparabile. Ma non sono fatto così. Faccio fatica a ritirarmi, anche se a volte sarebbe la cosa giusta da fare. È molto più difficile dire mi ritiro che: “Vado avanti e vediamo come evolve la situazione”. D’altronde, con tutti i colpi bassi incassati in questi giorni, sembra proprio che stia subendo uno scacco al Re che non mi lascia altra scelta se non spostare il re in quell’ultima casella prima di essere definitivamente “matto”!

 

In questi giorni, in un ambiente ostile, difficile, caldo e distante da casa (per non dire completamente solo), ho dovuto attivare tutte le risorse del mio corpo per mantenere una centratura mentale e non essere sopraffatto dalle difficoltà, che una ad una provavano ad attaccarmi. Ma ho continuato a combattere e continuo a farlo, cercando vie per ottenere quello che voglio. Non importa come, non importa dove. Mai demordere. Anche se un soldato ruandese viene e mi dice di cancellare una foto. Io mi rifiuto. Non ne ha il diritto. È un soldato delle Nazioni Unite. Come si permette? Non siamo a Kigali dove può fucilarmi a vista se mi rifiuto. “Il soldato non aveva l’elmetto in testa” dice. “Sono cavoli suoi rispondo. È suo il problema. Non mio”. Non si abbassa mai la guardia. Il problema di questi posti è che spesso i soldati sono analfabeti, non conoscono i permessi, non sanno come comportarsi. Le cose però non vanno male solo per questioni burocratiche. Che ci crediate o meno, ho roto due volte i pantaloni. La prima volta tagliando i cavallo salendo su un taxi moto, che aveva una sporgenza affilata. Era riparabile, così, con il mio kit di cucito da viaggio, l’ho riparato in mezz’oretta di relax mentale una sera. Poi ieri, salendo su un pick-up dell’esercito, ho strappato il secondo paio. Uno stratto di almeno 20 centimetri che mostrava tutto. Sono tornato a casa pregando il tassista di non farmi scendere dalla moto fino al portone di casa. Che vergogna. Sono degni del destino?

 

Il dilemma però, ruandesi o meno, pantaloni bucati o meno, è ormai chiaro: andare avanti oppure ritirarmi, andare a casa, a testa alta? Decisione troppo difficile da prendere. Non ho dormito la notte. Non solo per una zanzara che continuava a succhiarmi il sangue da ogni singolo arto corporeo, o per il caldo umido della stanzetta in cui dormo. Ma dopo tutta questa fatica? Tutte le risorse economiche, energetiche. Il sudore versato per salire su una moto, sfidando le insolazioni perché senza cappellino (e qui, potrei farmi certamente la remarque da solo, ma a chi mi dice devi fare attenzione dico, me ne frego!)? Non ne sono ancora convinto.

 

Ieri, dopo 8 giorni di quasi nulla totale, durante i quali ho passato la maggior parte del tempo a parlare con ministri, ufficiali, personale umanitario in uffici di burocrati, oppure sedendo in un bar di periferia ingollando sorsi di birra tiepida che sembrava piscio facendo chiamate insistenti, ho preso la dura decisione di lasciare a casa il mio fixer Saint Clair. Mi è spiaciuto. Soprattutto perché è stato valido, propositivo, ha risposto alle sfide cercando sempre soluzioni. Ma forse, il fatto che non sia riuscito a farmi lavorare, da un lato significa anche una mancanza dalla sua parte. Ho speso giorni di lavoro aspettando, pagando per stilare protocolli d’intervista, disturbando persone per farmi accompagnare a destra e manca. E non è cambiato nulla. Impossibile. Io, personalmente, in una situazione tanto difficile non mi ci sono mai trovato.

 

Il paese è in guerra, come dice giustamente il Ministro della comunicazione. E perciò vige la legge marziale, lo stato d’emergenza. I giornalisti diventando scomodi. Per dirla tutta, i giornalisti che coprono la zona sono quasi esclusivamente dei francesi e sappiamo benissimo che la Francia, in questo momento, ha un problema con il governo attuale e degli interessi ben precisi su un territorio che considera ancora come vassallo (che piaccia o meno). E sappiamo benissimo che i russi e i ruandesi appoggiano direttamente il governo. Insomma, una lotta di potere che fa dei giornalisti dell spie scomode, delle spine nel fianco. E da qualche settimana, non sono più autorizzati a lasciare la capitale Bangui per andare nelle zone più remote a coprire una crisi umanitaria preoccupante, una guerra che va raccontata nella sua totalità. Una crisi che ha esposto metà della popolazione del paese a una crisi alimentare raccapricciante. Ma nulla da fare. Il Ministro della comunicazione me lo dice chiaramente: “Una giornalista francese l’ha fatta grossa. Cosa dovremmo pensare di voi giornalisti?”. Ho cercato di dire che io, con i francesi non c’entro nulla (il che è anche vero). Con il loro modo di vedere non c’entro nulla (il che è anche vero). L’ho persuaso ad appoggiarmi. Oddio, ci ha pensato anche un mio contatto. Così non sono riuscito però riuscito a fare con il ministro dell’interno, il quale non mi ha dato il nulla osta per salire su un volo umanitario e coprire una storia terrificante nella cittadina di Bouar, a ovest del paese, dove rifugiati dormono all’addiaccio nelle chiese, i ribelli si aggirano in città e le forze armate stentano a tenere il controllo. Una situazione che parla da sé.

 

È per salire su quel maledetto volo umanitario gestito dall’Onu, che sarebbe decollato proprio ora, ho fatto mari e monti. Ho pure subito un’umiliazione con un’impiegata della Nazioni unite che mi ha riso in faccia, dicendomi che “grandi giornalisti” avevano la precedenza. Le ho risposto a tono, dicendole che forse, per farsi capire meglio nel sue francese sconnesso, avrebbe dovuto esprimersi in nella suo lingua madre, l’inglese. Penso abbia recepito il messaggio. Mi sono presentato a casa della ministra della difesa di buon mattino (mi ha ricevuto pure per un’intervista ridendo), ho chiamato il figlio del ministro degli interni per fare pressione sul padre, ho disturbato il consigliere alla presidenza e una Ong locale. È stato Valence, il fondatore dell’Ong locale Podium, una persona molto gentile educata e sveglia, ad appoggiarmi. “Conosco il ministro della comunicazione, è in politica nel quartiere insieme a me. Ti dirà di sì. Mi deve questo favore perché se no gli faccio cadere la coalizione”. E così è stato. Ma poi, in seguito, nessuno è riuscito a persuadere il ministro degli interni. Nemmeno la ministra della difesa che lo ha chiamato direttamente per chiedergli di rilasciarmi la lettera. E chi è questo ministro? Il Signore?

 

Sabato mattina però, chiama il portavoce della Ministra della difesa, Firmin. La Ministra ci vuole incontrare. A casa sua. Sarà per colazione? Povera Ministra, l’abbiamo letteralmente tampinata con mille chiamate, presentandoci a casa sua di buon mattino per chiederle di darci una risposta. Quando entriamo in casa sua, ridiamo dopo che dice, con tono serio ma divertito: “Questi due mi chiamano, mi rompono mentre faccio colazione, addirittura Saint Clair usa il fatto che siamo della stessa famiglia allargata”. Ridiamo. Sappiamo che alla fine si diverte pure lei. “Allora mi fa ste domande?” mi chiede, chiedendo un’intervista informale, e spiegandomi il contesto e dandomi le ultime attualità. Rimane sempre molto diplomatica e non casca nelle domande tranello. Alla fine, off the records, discutiamo dell’inutilità dei caschi blu dell’Onu, degli interessi esterni, dell’inutilità dell’aiuto umanitario in generale. Mi piace come la pensa Sua Eccellenza. Molti punti in comune, sebbene alla fine anche lei sia sempre una politica e con interessi ben precisi. “Pas de guerre, pas de Minusca (i caschi blu dell’Onu), pas d’argent. ». Poi : “Cosa posso offirti da bere? “ mi chiede alla fine. Niente, Eccellenza, solo un po’ d’acqua - rispondo. “Non vuoi una birra, del vino?”. Rido, “Signora, sono le 10 del mattino. La berrei volentieri una bitta ma devo lavorare e sotto questo sole rischio di ubriacarmi troppo”. A lei non interessa, tutti si servono con vino e birra. Il mattino ha l’oro in bocca.  Le prometto di regalarle un libro, in segno di rispetto. Sorride e annuisce. Lo farò per davvero. Deco  solo capire come inviare il libro fino a qui. Le chiedo infine di farmi andare al fronte con i soldati, di mostrarmi le loro operazioni. Accetta. Lo vedremo nei prossimi giorni.

 

Anche se questo incontro mi ha fatto sperare, per il volo e i permessi, finora niente da fare. Aspettando i permessi, ho quindi dovuto cercare delle storie. Spostarsi è difficile in un paese dove anche nel centro città, le strade sono piene di buche e sterrate. Nella capitale del paese, anche in centro, nella piazza della repubblica, la situazione di degrado è visibile. Non immagino cosa succeda fuori. Difatti, a soli 22 chilometri dal PK0 (il centro città di Bangui), 2500 sfollati sono rintanati in alcune classi scolastiche. Ogni classe ospita un centinaio di persone fuggite dalla brutalità e dagli attacchi dei ribelli. Ma non sono abbastanza per tutti. Perciò molti dormono all’addiaccio. Mangiano una manciata di riso a testa ogni giorno e aspettano, quasi senza speranze, di poter tornare a casa. Fra loro, molti sono stati vittime della brutalità insensata dei ribelli. Ribelli che ricordo, spesso sono spinti a combattere, depredare e stuprare solamente per un pezzo di pane. È così, spesso, che si combatte in Africa. Una guerra spietata dove la priorità non è conquistare ma mangiare. Ho trattenuto le lacrime, per davvero, quando la piccola Jasmine, soli 13 anni, mi ha detto guardandomi dritta negli occhi con una calma olimpica, che qualche giorno fa è stata stuprata da un gruppo di 4 ribelli. Non una storia nuova, per carità. Ma quando qualcuno te lo racconta con tanto coraggio, senza versare una lacrima e con una tale innocenza, è una cosa capace di far venire il voltastomaco anche i più forti. E ahimè, penso proprio che non sia il caso peggiore. “Ogni ora, in un terzo del paese, una donna viene stuprata, il che significa, 1 donna ogni 20 minuti se calcoliamo l’intero paese” è il ragionamento di alcuni ufficiali delle nazioni Unite. Ho capito bene?

 

È stato forse l’unico giorno dove ho potuto lavorare in maniera abbastanza decente, secondo i miei standard. Questo dà l’idea delle difficoltà nel muoversi attraverso un paese dove i soldati sono agguerriti e spaventati, i caschi blu dell’Onu sono all’erta e i ribelli si nascondono per tendere imboscate. È un caos. Una guerra “asimmetrica” come commenta un ufficiale Onu. Non possiamo assolutamente descrivere questo conflitto come convenzionale o attraverso linee del fronte ben precise. È semplicemente il caos dove a un conflitto di interessi ci sono faide fra vari gruppi, chi si combatte su unisce per combattere un terzo. Difficile spiegarlo giusto? I ribelli, in alcuni punti, sono a soli 10 chilometri dal centro città. Ieri mattina, dovevamo incontrarli. Dietro l’aeroporto internazionale di Bangui. Sono praticamente a un tiro di schioppo dalla pista di atterraggio che ora come ora, è sinonimo di rifornimenti vitali da quando la principale via di rifornimento terrestre (che collega la Repubblica Centrafricana al porto atlantico di Douala, in Camerun, principale punto di rifornimento del paese), è controllata dai ribelli che impongono un rigido embargo per stremare una popolazione già allo stato brado. Aiuta solamente a dare una piccola idea di quello che sta succedendo.

 

Comincio a vederci più chiaro. Il capo delegazione dell Comitato internazionale della Croce Rossa, uno svizzero-americano di nome Biber, molto simpatico e sorridente, mi dice inoltre che cercano di mantenere le relazioni con tutti i gruppi in conflitto, invocando Solferino, dove tutto ebbe inizio. Ma qui, non ci siamo lontani da Solferino in quanto brutalità, rispetto dei feriti e dei cadaveri. All’Onu lanciano messaggi critici. I critici della società civile centrafricana rivendicano il diritto della popolazione locale di risolvere il problema senza ingerenze esterne. Difatti, a torto o a ragione, è una soluzione intelligente.

 

Al momento in cui stendo queste righe mi dico che bisogna tenere la testa alta. La concentrazione al massimo. A volte capita di rimanere a secco. Ma così, dopo aver combattuto così tanto, fa ancora più male. E nessuno mi può aiutare. Nessuno è qui con me. Sono solo, non ho amici a dire la verità. Saint Clair e i suoi amici di Benz-vi, il quartiere popolare dove vive, lo sono diventati. Ma ora che non lavoriamo più insieme, non so cosa fare.

 

È la voce del quartiere -come si dice in Africa dove vive la popolazione locale- il calore della gente, gentile, affabile, lo schiocco delle dita al salutarsi, i “bonjour” ricambiati da un “merci” ( e non so perché), mi fanno divertire e tenere duro. Rido, nella miseria. Ridono le persone. Alla fine ci si abbraccia, ci si bacia, ci si saluta e rispetta. Cerco di vivere dove vivono i locali, mangiare come loro. Capire come si sopravvivere in  posti poveri fino al midollo. E così l’Africa, il suo calore e la sua bellezza, fa dimenticare per un istante la rabbia e la brutalità di una guerra insulsa.

 

Vado spesso in un bar, che io chiamo la sauna per quanto faccia caldo sotto il tendone. Tra l’altro, quanto è caldo questo paese. Troppo. La cameriera porta, come al solito, due birre. Una la apre, l’altra è pronta ad essere servita. Loic, un giovane padre di due figli e imprenditore, giochicchia con il suo telefonino di prima generazione. “Non riesco a superare questo livello”. Ci provo io, dopo un po’ dci riesco. “È perché sei bianco” dice ridendo. “Forse, mon frère, rispondo. O perché bevi troppo” ribatto. Ci diamo la mano, schioccando le dita in segno di grande rispetto. Di fronte al bar, una ragazza tiene un barettino. Studia filosofia e si chiama Doriane. È molto bella. Molte ragazze, in questo paese sono di una bellezza incredibile. Non lo dico a caso. Doriane siede al bancone mentre mangia la manioca e aspetta i clienti. Sul tavolo sono poggiati i suoi libri di studio così da ripassare mentre non ci sono clienti. Parla poco ma, come tutti ride sempre molto. Ha un sorriso che mi rapisce. Le rompo le scatole apposta. Lei fa finta di nulla. È timida. Come tutti, beve molto. Ieri l’ho vista seduta di fianco ai clienti con una bottiglia di birra in mano. Domenica invece, tutto il quartiere era in bisboccia. Abbiamo fatto il giro dei bar parlando, gridando e scompisciandoci dalle risate con altre persone. Spesso, Doriane attraversa la strada per andare nel bar accanto a chiacchierare con gli altri. Nessuno ci pensa nemmeno a derubare il suo locale. Fra gli abitanti del quartiere c’è un gran rispetto. Quando finisce di parlare, torna al locale, e serve i prossimi clienti.

 

Il momento di maggiore affluenza è la sera, dopo il lavoro, quando i bar del quartiere si riempiono di persone che tornano dal lavoro. Si bevono un goccio fresco prima di rientrare a casa con gli amici. Tutti si ubriacano. Sembrano dimenticare quello che li attornia, la miseria endemica che li stringe in una morsa e il loro destino di poveri erranti nel mezzo di un conflitto che non vede la fine. Sono persone che studiano, che hanno voglia di imparare, con una loro visione. È bello cercare di leggere negli occhi delle persone. Forse non sempre ci si riesce, ma spesso si può capire che ognuno, come me, corre la sua utramaratona per cercare quella felicità che ci sfugge sempre di mano. È una cosa comune a tutti noi.

 

Quando torno nel mio stanzino senza luce e senza finestre la sera, sembra di essere entrati in una cantina rimasta chiusa per anni. Il puzzo di muffa e umidità è alle stelle. Ci fosse un minimo d’aria, ma la camera è situata sotto le scale in un angolino dell’edificio, quasi non entra luce. Insomma, ci torno solo la sera, ma alle 6 c’è il coprifuoco e quindi ci passo delle ore. Meno male che posso leggere. Sono andato a scaricare qualche libro sul mio kindle.

 

Dalla vivacità della strada, polverosa, piena di venditori ambulanti e tassisti che suonano il clacson come se fosse uno strumento musicale, si passa al buio e al silenzio più assoluto. Meno male che c’è un po’ d’aria condizionata. Ma la uso con parsimonia una decina di minuti, altrimenti consumo tutta l’elettricità che costa un patrimonio. Incredibile, e questo vale pero ogni paese in guerra – i costi di tutto, anche dell’aria inquinata che si respira, sono i più elevati.

 

Non tutto è perduto, dopotutto. Ogni mattina, uscendo di casa, penso di vivere in un mondo parallelo, distaccandomi dalle preoccupazioni di casa e vivendo a fondo una nuova esperienza. Spero sempre che quel telefono maledetto squilli. Che  qualcuno mi dica: ok, hai il permesso. Voglio lavorare. Ma fino a quel momento, continuo a ingegnarmi per trovare altre storie altrimenti dovrò dichiarare la sconfitta, dimenticando questa missione e preparando la prossima. L’attesa logora ancora di più che il lavoro stesso. E ora, sono perso. Non ho paura di ammetterlo. È solo lei che dal cielo, potrà darmi l’ispirazione e l’energia per alzare la testa e continuare a lottare.